Anna Maria Menotti. 1832. Ciro Menotti

Ciro Menotti nacque il 22  gennaio 1798 a Migliarina – Roma, frazione di Carpi ( Modena ), da Giuseppe Menotti e da Anna Bonezzi. Studiò a Carpi fino all’età di otto anni, completò gli studi con i corsi preliminari alle Facoltà Superiori di Scienze a Modena, città allora occupata dai Francesi, che vi avevano diffuso le idee della loro Rivoluzione.

Nel 1813 entrò nella Scuola del Genio, diretta da Cagnola Veronese.

Soppressa la Scuola, prestò servizio con il grado di  tenente nella Guardia Urbana che Francesco IV d’Este, Duca di Modena, Reggio, Mirandola, Massa e Carrara, Arciduca d’Austria, Principe Reale d’Ungheria e Boemia aveva fondato al restaurarsi della dinastia estense.

 

Il Menotti presto abbandonò la milizia e si dedicò a Carpi esclusivamente al commercio nell’industria paterna del  truciolo  e dei cappelli di paglia, confezionati con le fibre di salice.

Il 18 giugno 1819 sposò Francesca Moreali, vedova Tori, da cui ebbe quattro figli: Achille, Polissena, Adolfo e Massimiliano. Il rito nuziale fu celebrato, con regolare dispensa ecclesiastica, secondo la forma del Santo Concilio di Trento, dopo solo  undici giorni  dalla morte, per “ scoppio al basso ventre” (peritonite acuta a quei tempi letale), di Giuseppe Tori.

Il Menotti, trasferitosi a Modena, aprì con lucrose iniziative personali, socio il repubblicano Antonio Lugli, una banca ed una agenzia di spedizioni di merci varie.

La ditta Menotti – Lugli, acquistato un magazzino in dogana da Carmi di Reggio aveva regolare licenza rilasciata dall’Intendenza di Finanza per l’esportazione di unghie e corna di bue nel bolognese e di seta greggia a Milano.

 

Nel 1821, accusato insieme ad altri modenesi da Emilio Campilanzi della diffusione di un  proclama in lingua latina per incitare le truppe ungheresi, comandate dal barone Frimont, di passaggio da Modena e dirette a Napoli, a non battersi contro i rivoluzionari italiani, fu arrestato.

Il proclama testuale:

Valorosi soldati ungheresi, le furbe arti dell’Austria da voi conosciute da molti secoli vi spingono a combattere non a favore della vostra patria o dei vostri altari, ma contro genti tranquille e a voi amiche. La Libertà è assalita con lo stesso esecrando proposito con la quale venne un giorno assalita la vostra. L’Austria vuole che noi ci combattiamo, affinché rimaniamo tutti soggetti a essa”. L’Austria era intervenuta nei moti carbonari  a seguito della Dichiarazione, sottoscritta il 27 ottobre 1820 dal Metternich, dalla Russia e dalla Prussia al Congresso di Troppau, che proclamava il “principio dell’intervento  europeo” in ogni Stato nel quale la rivoluzione fosse in atto.

 

Il Menotti, non essendo emersi motivi di accusa, fu rilasciato dopo  quaranta giorni di carcere. Francesca Moreali, che si aggirava spesso nelle vicinanze della prigione, fu notata dal poeta Pietro Giannone, incarcerato per sospetti politici, il quale le dedicò un’Ode intitolata “La Tortorella”, che scrisse sulle pareti della sua cella.

Per gravi dissensi in materia di amministrazione, il 31 maggio del 1824, sciolse la società ma ciò non influì sull’amicizia dei due consoci. I proventi furono dal Menotti elargiti alle Famiglie delle vittime dei moti rivoluzionari.

Successivamente il Menotti, imprenditore d’avanguardia, aprì in Saliceto sul Panaro un opificio per la filatura della seta.

Lo stabilimento, pur di proporzioni notevoli, era superato da altri ma l’iniziativa del Menotti di far funzionare l’opificio a vapore mediante un apposito impianto, costruito da Leonardi di Milano – per la prima volta la macchina a vapore veniva applicata a un’industria – fece sì che la produzione serica di Saliceto riuscisse più rapida e più fine delle altre con esiti economicamente assai soddisfacenti, tanto che  poté acquistare e fare ampliare in Modena Palazzo Calori in Corso Canalgrande n°1098. (Il Palazzo, oggi al numero civico 90, fu lasciato per anni nel più totale abbandono finché l’avv. Giorgio Giusti l’ha riportato all’antico splendore).

 

Sempre a Saliceto sul Panaro aprì una distilleria utilizzando le macchine della filanda che, con opportune modificazioni di sua invenzione, trasformò in una macchina a vapore distillatrice per la  quale chiese un brevetto per cinque anni.

Scrisse sul commercio “dell’acquavite e degli spiriti”.

Il commercio dell’acquavite  fu  attivissimo ma nel 1828 entrò in crisi.

 

A Casinalbo attivò  una fonderia per la lavorazione del ferro e nell’isolario del Panaro,  presso  Vignola, una  ferriera. Le richieste di facilitazioni fiscali per la circolazione dei prodotti siderurgici, il 4 gennaio del 1827, furono accolte favorevolmente dal  Ministro Molza.

 

Per una serie di circostanze sfavorevoli, tra le quali va annoverata la concorrenza estera, tali imprese furono  costrette a chiudere.

L’unica industria rimasta solida, pur con momenti di crisi, fu la manifattura dei cappelli di truciolo del padre Giuseppe.

I lavoratori impiegati a vario titolo e con varie modalità nella produzione, trattati sempre con umanità in tempi in cui mancavano associazioni e leggi a tutela dei lavoratori,  non scesero mai al di sotto delle 1400 unità.

Ciro e il fratello Celeste vi lavoravano alacremente: il primo dirigeva la fabbrica in Modena, il secondo curava l’esportazione a  Londra, avendo qui l’industria il suo principale mercato di vendita.

Per la numerosa  manodopera impegnata, il duca Francesco IV il 23 giugno 1830 concesse privilegi fiscali per dieci anni e proibì ad altri di imitare i miglioramenti inventati e introdotti da Ciro Menotti sui cappelli sia con l’applicazione di disegni a litografia, sia col tingerli, sia col renderli impermeabili.

Gli incontri d’affari tra Ciro e il Duca divennero quasi giornalieri.

Durante uno di questi incontri Ciro conobbe il modenese Enrico Misley, il quale, massone per nascita,  entrato nella Carboneria ancora studente, laureato in giurisprudenza, sposato a  Maria Francesca Ruffini, figlia dell’avv. Luigi e nipote del prof. Paolo, Rettore dell’Università di Modena nonché consigliere del Duca, era agente diplomatico in Francia e godeva tutta la confidenza sovrana.

Il Menotti, iscrittosi alla Carboneria –  il Misley fu il suo padrino – maturò idee liberali e se con Francesco IV tenne un rapporto amichevole suddito-sovrano, al Misley lo legò una profonda amicizia.

I due amici, visti gli esiti negativi dei moti  carbonari e la conseguente  repressione,  che creò il fenomeno dell’emigrazione politica divenuta massiccia, presto trasformatosi in”volontarismo militare” – Santa Alleanza dei popoli da contrapporre alla Santa Alleanza dei sovrani messa in crisi dalla guerra greca – incoraggiati dal fermento che scuoteva l’Europa, pensarono essere giunto il momento di  realizzare le aspirazioni liberali con l’attuazione di un progetto unitario dell’Italia.

Nacque la convinzione che il successo di una rivoluzione fosse condizionato dalla situazione internazionale: neutralità inglese e fattivo intervento della Francia contro la padronanza austriaca in Italia: su tale convinzione  si basarono i preparativi del moto rivoluzionario del 1831.

Del resto l’intervento diplomatico delle grandi Potenze assicurò alla Grecia l’indipendenza, voluta dall’Europa Occidentale per impedire il primato russo (Conferenza di Londra – 3 febbraio 1830).

In Francia la rivoluzione popolare del luglio 1830,  rovesciata la Monarchia dei Borboni , portò sul trono il Duca di Orléans, Luigi Filippo, re delle barricate, protettore della propaganda liberale e sostenitore del “ principio del non intervento”.

Il Belgio, dopo lunghi contrasti, riuscì  a  separarsi dall’Olanda e  Varsavia insorse contro la Russia per proclamare la propria indipendenza, dimostrando che l’antico sentimento nazionale polacco non era ancora finito.

La situazione internazionale era favorevole per l’Italia.

Si pensò di coinvolgere il Duca  per questi motivi :

– per l’intelligenza, la scaltrezza e l’ambizione di Francesco IV.

L’ufficialetto austriaco, meschino nell’aspetto e dall’uniforme logora, la cui madre salutandolo al momento della partenza per Modena gli raccomandava “va e fa daneé”, grazie ad una rigorosa polizia, a una strutturazione statale semplice e funzionale, ad una espansione commerciale a livello anche internazionale, grazie all’industria Menotti,  aveva saputo, dal giorno del suo ingresso in Modena ( 15 luglio 1814) creare un ingente patrimonio. Per raggiungere progetti di espansione territoriale, fin dal Congresso di Vienna  chiese i territori bagnati dal mar Tirreno, intorno al golfo di La Spezia e il porto per assicurarsi una facile e diretta comunicazione con il Regno di Sardegna cui ambiva alla morte di Carlo Felice, ma la richiesta non fu accolta. Nel 1821 ci riprovò mandando emissari, tra cui il Misley, nella Savoia, nella Lombardia e negli Stati romani con promesse liberali ed oro.

– per le sue parentele.

Sposò la propria nipote, Maria Beatrice, primogenita di Vittorio Emanuele I° di Savoia, sperando nell’attribuzione dell’eredità del Re del Piemonte, poiché Carlo Felice era senza figli e si parlava , al Congresso di Verona nell’ottobre del 1822, di escludere il ramo di Carignano dal diritto di successione al trono per i trascorsi giovanili di Carlo Alberto nel movimento costituzionale del 1821.

Ma il fermo atteggiamento della dinastia savoiarda contro il Metternich, sostenitore dell’abolizione della legge salica, e l’opposizione fatta dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Russia, fecero universalmente accettare la successione di Carlo Alberto.

– perché settista.

Si immischiò nelle Sette Concistoriali; era attivo Sanfedista, (capo il Cardinale G. Albani) e come tale collaborava con la Carboneria; la sua reggia era il Centro con cui corrispondevano le Logge di Napoli, Roma e Torino e da cui partivano gli ordini e le istruzioni. Aiutò anche con denaro la rivoluzione di Parigi  ed era favorevole ad uno Stato dotato di franchigie costituzionali.

Per tutti questi motivi, fu facile per il Misley e  il  Menotti convincere il Duca Francesco IV ; nell’ottobre del 1829 si diede origine a quella che fu chiamata la congiura estense”.  

 Fra il Duca, primo attore di detta congiura, cospiratore fra cospiratori, e il Menotti si strinse, nella saletta d’oro del Palazzo ducale, un patto di reciproco aiuto: “questi non avrebbe mai attentato alla vita del Duca e della sua famiglia, quegli assicurava al Menotti che in ogni evento avrebbe salva la vita”. ( Il Menotti non venne mai meno a tale giuramento, anzi sventò due congiure contro il Duca e rischiò di rimanere lui stesso vittima di un attentato ordito da un certo Cosini).

L’“insurrezione di popolo con re da effettuarsi senza ira e offesa” che doveva “dalle Alpi all’Etna”  riscattare l’Italia a Nazione, conosciuta da tutta la popolazione degli Stati Estensi e dalla stessa polizia (anche il direttore Poli vi era impegnato) fu organizzata nei minimi particolari: per motivi di opportunità, operarono a livello nazionale Ciro Menotti ed a livello internazionale, per i suoi contatti con i Comitati Cosmopoliti di Parigi e di Londra, costituitisi come coordinatori dei rivoluzionari di ogni Nazione, per le sue relazioni settarie internazionali, per la sua capacità sottile del raggiro politico, Enrico Misley il quale, infatti, ottenne formale impegno dalla Francia e dalla Russia ( fatto sperare dal Capodistria) che il principio del non intervento sarebbe stato imposto all’Austria.

Francesco IV sovvenzionò il Comitato Cosmopolita che da Parigi doveva dirigere il rivolgimento di carattere popolare.

Sul finire del 1830, cominciò per il Menotti  e il Misley un’attività politica di viaggi, di organizzazione e sondaggi sia in Italia che in Francia. Il Duca vi partecipava da  assente.

Il Misley in Francia preparò due spedizioni una che prevedeva lo sbarco sulle coste della Lunigiana, l’altra che avrebbe invaso la Savoia e fatto insorgere il Piemonte.

Il Menotti in Italia agiva incontrastato e senza mistero e creava comitati nel Ducato: a Reggio, Carpi, Mirandola, Sassuolo, Finale, Vignola, Scandiano; nelle Romagne; in Toscana, dove a Firenze aiutò Pietro Maroncelli, reduce dallo Spielberg e incontrò i fratelli Napoleone Luigi Bonaparte e Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, figli di Luigi Bonaparte, fratello di Napoleone Bonaparte e già re d’Olanda e Ortensia Beauharnais, ottenendo un contributo finanziario e l’impegno a partecipare al movimento; in Lombardia; in Piemonte; nelle Marche e perfino a Roma, aiutato da Manfredo Fanti, Gianbattista Ruffini, i fratelli Fabrizi, Francesco Cialdini, Andrea Montanari, Lotario Bacciolani, Giuseppe Piva, Giuseppe Campi, Silvestro Castigliani, Gaetano Moreali, Francesco Cambi, Giulio Reggianini ed altri.

Nel modenese assoldò agricoltori, gli diede un capo e li divise in Corpi che chiamò raggi esterni, dispose in città altre genti, divise in Corpi, che chiamò raggi interni.

A Parma, a Bologna, nella Romagna la rivoluzione doveva iniziarsi contemporaneamente e intanto Lombardi e Piemontesi offrivano alla Francia due milioni e Lafayette prometteva al  gen. Guglielmo Pepe  2000 uomini, 10.000 fucili e due fregate.

 Dalle lettere scritte da Ciro al Misley:

“ Arrivo in questo momento da Bologna. Bisogna che ti dica che il Duca è un vero birbante. Ho corso ieri il pericolo d’essere ucciso. Il Duca ha fatto spargere voce dai Sanfedisti che io e tu siamo agenti stipendiati per formare dei Centri e quindi denunciarli. Ciò era tanto creduto a Bologna che poco mancò che io non fossi assassinato. Il fatto sta che in otto giorni tutta la Romagna mi aveva voltato la faccia, ma ritornerà mia ….”

“Il movimento è immancabile, è disposto tanto bene che non temo ormai più l’esito né qui, né in Romagna, né in Toscana . Parma ci seguirà il giorno dopo.

Io non mangio, non dormo, ma sono in continuo moto …”

“Lunedì tutto sarà pronto e non mancherà più che il giorno. Ne ho io la scelta e sceglierò quello nel quale potrò salvare S. A. R.. Mi varrà della pena a riuscirvi, ma vi riuscirò se egli non tenta di scappare. Sarà poscia rispettato. Conosci i miei sentimenti ….”

 “Il Duca è sempre deciso di lasciar fare. Perciò noi viviamo come in una repubblica …..”

“… denari non  ne mancano … Vedrete che si è preveduto tutto e provveduto a tutto senza spargimento di sangue …”

“ A Roma si teme  che il Conclave venga distrutto dal Popolo …”

“ A Roma tutto va lietamente, perché non si vuole dalla Romagna fare da sé: prima vogliono essere bene organizzati sul piano da noi ideato e vogliono che Parigi dica come e quando tutti dovranno incominciare..”

 “ Questa sera andrò da S.A.R. per il noto affare: Da Roma sono stati esiliati quei Romagnioli  tutti che vi erano, fra loro Malmusi …”

“Eccoti gli affari di Roma. Il 13 doveva essere preso il Castello S. Angelo, perché custodito da soldati compri. Luigi Napoleone montò a cavallo per andare al Luogo ove 500 congiurati dovevano trovarsi. Non v’erano o ve ne erano pochi. Al Castello non era più la truppa compra …”

“ La Francia interverrà si o no se l’Austria passasse il Po? Ecco le notizie che vogliamo sapere …”

“ Sicuri del concorso di Francia l’entusiasmo sarà al colmo”

“ La gioventù è ansiosa di slanciarsi ….”

 

La data stabilita era  la notte fra il 5 e 6 febbraio 1831: alla mezzanotte le campane di Modena dovevano suonare per radunare il popolo; i punti di convegno in città erano nella casa di Ciro Menotti  in Corso  Canalgrande e nell’alloggio di Manfredo Fanti  in Via della Porta Vecchia.

Si dovevano aprire le quattro porte della città ( Porta Bologna, Porta S. Francesco, Porta S. Agostino, Porta Castello)  agli insorti che dovevano accorrere dalla provincia; si doveva scortare  il Duca e la sua famiglia nel mantovano per non palesare all’Austria la pretesa di questi alla corona d’Italia.

L’Ambasciatore di Vienna a Parigi, avuto sentore della congiura estense ne informò l’Imperatore d’Austria  che mandò a Mantova il barone Mareschall. Questi  intercettò la corrispondenza fra l’avv. Enrico Misley e il segretario di Francesco IV, Gamorra, dalla quale risultava  la congiura estense.

In un primo momento sembrò che  l’Imperatore d’Austria volesse il Menotti per smascherare le trame ducali e Francesco IV  fu costretto dal rumore austriaco a rinunciare alle sue aspirazioni  di espansione territoriale e a rinnegare il patto di reciproco aiuto stretto con Ciro Menotti, ma si rese conto che ormai era troppo tardi per soffocare la rivoluzione.

 

Così diceva al suo ministro Coccapani. “ un arresto, un processo, uno scandalo non sono possibili, i segreti pericolosi che il Menotti conosce non possono essere soffocati che nel sangue”.” Bisogna sorprenderlo con le armi in pugno  per poterne fare giustizia sommaria”. Pertanto affidava la difesa del Palazzo a Gamorra e inviava alla Cittadella il colonnello Sterpin perché prendesse il comando delle truppe disponibili.

Tutto ciò sembrava una finta dimostrazione; l’arresto inatteso ed improvviso di alcuni congiurati, tra cui il giovane Nicola Fabrizi, al quale era affidata l’organizzazione della gioventù  e l’ espulsione  dal Ducato di due ex ufficiali napoleonici, il gen. Zucchi e il maresciallo Fontanelli, fecero precipitare gli eventi.

 La sera del 3 febbraio 1831 Ciro Menotti riunì, nella sua casa in Corso Canalgrande, quarantatré amici per cominciare l’impresa: si aspettava la mezzanotte. Aveva poche armi e una bandiera tricolore, cucita dalla contessa Rosa Testi  Rangoni, poi condannata a tre anni di carcere, commutati  in altrettanti di reclusione nel monastero delle Mantellate di Reggio  con questa motivazione :“colpevole di aver cucito su commissione del capo ribelle Ciro Menotti una bandiera di seta, di colore bianca-rosso-verde, sapendo che la medesima doveva servire alla rivolta”.

Il Duca, avvertito dal Fangarezzi di questa riunione straordinaria, credette arrivato il momento  di sbarazzarsi del Menotti. Ecco allora lo schieramento di ingenti forze ( un drappello di Dragoni, il Corpo dei Pionieri, un battaglione di linea con Artiglieria e Cavalleria ) contro la casa di Corso Canalgrande  con l’intento e l’ordine di distruggerla fin dalle fondamenta; egli stesso si pose alla testa di un battaglione e da via Fonte Raso assistette all’assalto predisposto dal colonnello Sterpin e dal capitano Coronini, che comandavano una trentina di dragoni e di pionieri.

Tuona il cannone contro i patrioti per sopprimere un moto che avallato dai Comitati Cosmopoliti di Londra e di Parigi, avrebbe dovuto coinvolgere tutta la penisola italica.

Lo scontro a fuoco fu aspro: caddero tre soldati e un cospiratore.

Il Menotti, assediato, sperando che i congiurati portassero a compimento il piano prestabilito, decise di recarsi di persona dal Duca e obbligarlo ad attendere gli avvenimenti, offrendosi di persona a garanzia della sua sicurezza.

Si gettò da una finestra sul retro della casa con l’intento di  costeggiare la vicina chiesetta di vicolo Calori Cesis per evitare i dragoni e raggiungere il Duca;  visto, fu ferito  lievemente ad una spalla, catturato e portato dal maggiordomo Guicciardi a Corte. Invano chiese di parlare col Duca; questi rifiutò,  sia allora che dopo,  qualsivoglia incontro.

Fu condotto nelle carceri della Cittadella, dove fu rinchiuso con altri  congiurati,  tra cui Manfredo Fanti e il fratello Gaetano, Angelo Gibertoni e Luigi Loschi che, sopraffatti, si erano arresi.

Soffocata la congiura, Francesco IV ordinò di perquisire la casa di Corso Canalgrande per entrare in possesso  delle carte (carteggio Menotti – Misley; diario dei colloqui sovrano – suddito, della cui esistenza è cenno in deposizioni di arrestati; patto di garanzia ) che si premurò di distruggere insieme a quelle del suo archivio privato.

Il 4 febbraio 1831 un proclama faceva noto di quanto accaduto:

“ NOI FRANCESCO IV”

“Per la grazia di Dio Duca di Modena, Reggio, Mirandola, Massa e Carrara  … in circostanza che un piccolo numero di Congiurati osarono nella sera di ieri 3 febbraio riunirsi ed armarsi in Casa di Ciro Menotti, coll’iniquo oggetto di sorprenderci così armati nel Nostro Palazzo, la Divina Provvidenza ha permesso che noti fossero i loro disegni e resi vani i loro tentativi col farli rinchiudere  in detta Casa dalle fedeli e brave Nostre Truppe, che dopo una lunga fucilata tentarono perfino un assalto che per non arrischiare la vita a Noi preziosa di tanti buoni Nostri Soldati d’ogni arma, abbiamo ordinato di sospendere; ma rinnovatosi il fuoco dalla suddetta Casa, col farla cannonare abbiamo obbligati tutti i Congiurati in numero più di trenta ad arrendersi a discrezione e trovansi tutti arrestati e verranno da un Consiglio di Guerra militarmente e in forma sommaria giudicati.

Nel far noto questo avvenimento non possiamo dispensarci dal tributare le debite lodi alla brava e ben attaccata Nostra Truppa di ogni arma, che nella scorsa notte ce ne ha date le più irrefrenabili prove. E cominciando dal Corpo dei Pionieri, che il primo accorse a circondar la Casa Menotti, e che non ostante il vivo fuoco dei Congiurati si sostenne con molta bravura, guidato dal suo bravo Comandante Conte Coronini, che a molto coraggio unisce molto zelo ed intelligenza, secondati da un Drappello  di Dragoni, che il Tenente Colonnello Conte Sterpin, per effetto del suo zelo ed attaccamento per Noi prese a dirigere molto opportunatamente onde riuscisse l’impresa.

Indi lodando il Battaglione di Linea accorso anch’esso parte alla Casa  Menotti e parte rimasto alla difesa del Nostro Palazzo ….. L’Artiglieria poi ben diretta del bravo e attivo Tenente Vandelli si distinse col suo fuoco che costrinse i congiurati ad arrendersi e che avrebbe abbattuta la Casa Menotti se continuava il fuoco ……………….”

“FRANCESCO”

Fu subito istituita, per giudicare sommariamente i congiurati radunatisi in casa Menotti, la Commissione Stataria Militare. Sterpin conte Giovanni, colonnello dei Corazzieri imperiali reali austriaci, scudiere ed aiutante di campo del Duca, fu nominato Presidente; membri: Coronini, conte Giovanni, comandante il corpo dei Pionieri, Zanni Geminiano, capitano nella IV compagnia Fucilieri, Pifferi Vincenzo, sottotenente nella I compagnia Fucilieri; Amorth…..,sergente di linea; Zerbini, avvocato Pier Ercole, giudice processante.

I condannati a morte dovevano essere quattro: Menotti, Casali, Castiglioni, il quarto era incerto.

Il Duca scrisse al Governatore di Reggio Emilia, Conte Ippolito Malaguzzi-Valeri, : “Modena, 4 febbraio 1831. Questa notte è scoppiata contro di me una terribile congiura. I cospiratori sono nelle mie mani. Mandatemi il boia. Francesco”.

Al processo fu allegata solo una ingenua traccia del programma della rivoluzione inviata al Comitato di Parigi per l’approvazione.

Il Tribunale Militare, in attesa del boia Pantoni,  iniziò gli interrogatori, turbati dall’atteggiamento del Menotti che chiedeva ripetutamente di parlare solo col Duca e così si esprimeva “ il Duca conosce e sa tutto quanto è avvenuto dal settembre del 1830 fino al momento dell’improvviso assalto alla mia casa e del mio arresto, del più nero tradimento contro di me e degli amici miei ordinato: io ho sempre agito di concerto e con intelligenza del Duca e per lui e le sue cose. Se non fu l’offerta gradita ai centri rivoluzionari e all’Italia intera non può essere colpa mia: egli e le cose sue avrebbero lasciato lo Stato senza alcun pericolo, la Casa d’Austria avrebbe sempre ignorato le trattative , egli lo sa , ne era certissimo.

Domando che questa mia dichiarazione sia scritta e portata al Duca stesso e protesto contro i furori del Presidente Sterpin di voler prima interpellare il suo padrone”.

Lo Zerbini  e lo Sterpin si recarono a corte  per prendere ordini.

Il Duca, avendo uno della famiglia Cialdini comunicato che la rivolta era divampata a Parma, rivolta che si estese a Ferrara, Bologna, nelle Marche e nell’Umbria, e avendo inutilmente mandato a Verona il capitano Brocchi per chiedere il soccorso delle armi austriache ( il Frimont, temendo una insurrezione anche in Lombardia senza l’ordine di Vienna non poteva inviare truppe oltre il confine) ordinò di sospendere il processo e  con la famiglia reale abbandonò Modena, lasciandovi 400 uomini armati, comandati da Sigismondi Ferrari , che si arresero agli insorti.

Il Duca in fuga  si diresse  verso Mantova, passando per Carpi e per Novi, trascinando in ceppi Ciro Menotti ora visto non più come minaccia ma come ostaggio.

Ci furono diversi tentativi, purtroppo falliti, per liberare dalla prigionia il Menotti. Il primo fu tentato dalla sorella,Virginia Menotti, sposa del principe Luigi Pio di Savoia, che vestita da uomo avrebbe dovuto sostituire il prigioniero ( testimonianza letteraria di Nicolò Tommaseo) . Un  tentativo fu fatto da Giulio Reggianini di Modena d’accordo con il conte Giuseppe Arrivabene, con il marchese Edoardo Valenti Gonzaga, con Gianfrancesco Marchesi, con Attílio Partesotti ed altri carbonari di Mantova e con la sovvenzione del Governo provvisorio modenese che aveva messo a disposizione la somma di quarantamila lire. Il  Partesotti  aveva proposto al professore Antonio Szarvas, custode del Menotti, di fuggire con il prigioniero; ma la fuga  fallì essendo stato il Menotti passato ad altra prigione. Un ultimo disperato tentativo: quando  Ciro Menotti doveva essere di notte trasferito a Modena, i liberali   decisero di liberarlo assalendo la scorta con il favore delle tenebre,  ma il viaggio fu eseguito di giorno e così anche questo fallì.

Non mancarono suppliche e  petizioni popolari di Carpigiani e di Modenesi per ottenere la liberazione  di Ciro  Menotti.

I Carpigiani avevano mandato a Mantova il vescovo monsignor Clemente  Bassetti per  supplicare il Duca di  lasciare libero il loro concittadino e il 10 febbraio il Governo Provvisorio di Modena aveva inviato una deputazione, composta dal colonnello Leonida Papazzani e dal canonico don Antonio Mainieri, affinché portasse a Francesco IV una supplica della famiglia Menotti, firmata da molti modenesi, per ottenere la liberazione del prigioniero.

Seguì il 12 febbraio un rescritto ducale ambiguo e contraddittorio:

“Col sospendere il corso della giustizia, nonostante l’enormità del delitto per cui è condannato Ciro Menotti, abbiamo fatto molto in suo favore: quanto poi alle istanze della di lui famiglia appoggiate dal ricorso direttomi dalla nostra Comunità di Modena, speriamo bene che continueranno ad essere rispettate le persone e le proprietà in Modena, ed appunto dalle cìrcostanze dipenderanno le ulteriori nostre risoluzioni sulla persona del Menotti, che non troviamo del caso di poter ora rimettere in libertà”.

Francesco IV fu richiamato a Vienna dall’Imperatore d’Austria: uscito dall’udienza, il destino di Ciro era segnato: condanna a morte. E’ stata un’imposizione?

Il 5 febbraio i  patrioti di Carpi, capeggiati da Celeste Menotti, fratello di Ciro entrarono a Modena.

Nel palazzo comunale si applaude alla libertà e all’indipendenza italiana e il 7 febbraio 1831 Giuditta Bellerio, moglie di Giovanni Sidoli,  innalzò sul balcone del palazzo municipale di Modena il Tricolore.

Nonostante la cattura di Ciro Menotti, i governi di Modena, Reggio, Bologna e Parma caddero dimostrando la loro incapacità di resistere alla spinta insurrezionale che si diffuse rapidamente nelle Marche fino a Roma.

Anche se con un’impronta conservatrice, la rivoluzione del 1831 trionfava in tutto il Centro Italia.

Il 9 febbraio in Modena settantadue cittadini, tra cui il  notaio Vincenzo Borelli, firmarono l’atto di decadenza degli Estensi.

Fu istaurato un Governo Provvisorio e nominato dittatore Biagio Nardi, che, accettato l’incarico, così esordì:

…. “È giunta un’epoca felice in cui l’uomo recupera la sua dignità di uomo, deponendo la figura dei bruti che è stato costretto ad  assumere da molti secoli.

……Voi siete liberi, o Modenesi e abitanti di questa Provincia, perché comandate ed obbedite a voi stessi, o per meglio dire non comandate né ubbidite ad alcuno: è la legge che comanda a tutti, e tutti a quella debbono ubbidire”.

 ……L’Italia è una sola, la Nazione italiana è una sola, perché a tutti gli abitatori d’Italia appartiene questa classica terra, perché la bella lingua italiana tutti gli italiani unisce in una grande famiglia, composta di circa sedici milioni di abitanti. E’ sempre stata  disgrazia per noi italiani l’essere divisi da governi, ma ciò non toglie il carattere nostro nazionale…..”

 La guardia civica , costituita da liberi cittadini, scarcerò tutti i prigionieri politici.

Modena fu il primo territorio sul quale sventolò il Tricolore di un’Italia indipendente e libera dalla dominazione dello straniero, anche se solo per la durata di un mese.

Il 17 febbraio al Governo Provvisorio di Modena  si unì Reggio Emilia.

Si istaurò un Governo Provvisorio anche a   Parma,  a Bologna e nelle città  che la rivoluzione rendeva libere.

Il Governo Provvisorio di Pesaro nominò Giuseppe Sercognani Comandante della Guardia Civica; questi, costituito un gruppo di volontari, il 12 febbraio occupò il forte di San Leo, situato in posizione dominante sulla cima di Montefeltro e usato dal Governo papale come prigione politica, quindi, assediò Ancona, costretta a capitolare. Raggiunto dai fratelli Bonaparte, mosse per la via Flaminia verso Roma mentre insorgono Perugia, Foligno, Spoleto, Terni, Narni, Otricoli.

Truppe pontificie, comandate dal Gen. Resta, furono poste a Corese,  Civita Castellana e Calvi, a difesa delle tre strade che portano a Roma.

Il presidio di Rieti, città fuori linea , era assai debole . Il Gen. Sercognani, arrivato a Ponte di Terria e postovi il suo Quartier Generale, scrisse al Col. Bentivoglio invitandolo  alla resa del presidio.

Al silenzio di questo, diede il segnale di combattimento con un colpo di cannone che asportò la testa di Domenico Tassoni. Il fuoco durò quattro ore e fu sospeso per un fortissimo temporale quando il Governo di Bologna gli ordinò di non marciare su Roma per timore di complicazioni internazionali.

 

L’avv. Giovanni Vicini, appena nominato Presidente del Governo Provvisorio di Bologna, dichiarò che “il Dominio Temporale che il Romano Pontefice esercitava sopra questa città e provincia è cessato di fatto e per sempre di diritto”; il 26 febbraio i delegati di 41 città si riunirono e l’Assemblea  ratificò la dichiarazione di  decadenza del potere temporale dei Papi e la costituzione di un Governo delle Province Unite Italiane.

 

Roma si ribella  ma la sommossa di Piazza Colonna  fu subito repressa.

Anche a Palermo fu organizzata, da Domenico di Marco, una sommossa alla quale le Autorità non dettero valenza politica ma criminale.

Intanto la Giunta Liberatrice Italiana di Parigi, alla notizia dello scoppio della rivoluzione,  pubblicò, firmato da Salfi, Buonarroti, Mirri, Bianco, Porro, Linati, Cresia  e Borso, a nome degli emigrati italiani, un “Proclama al Popolo Italiano, dalle Alpi all’Etna:

Amici e Fratelli, la Francia, il Belgio, gli Svizzeri e la Polonia gridano libertà e questa beata voce fu valorosamente ripetuta dai nostri concittadini di Modena e  di Bologna;  noi accorriamo per unire le nostre voci e le nostre braccia a pro della libertà italiana. LIBERTA’ ; sì libertà universale dall’ Alpi alla Sicilia, e per recuperare un tanto bene si trascuri ogni altro interesse, ogni comodo e si impugnino  da tutti le armi a sterminio dei tiranni e di chiunque dentro o fuori tentasse di sostenerli. Non può esistere libertà senza indipendenza, né indipendenza senza forza, né forza senza unità. Adopriamoci dunque a ciò: l’Italia sia in breve Indipendente, Una, e Libera …

Libertà intera ed eterna alla cara Italia”

Il 19 febbraio il Papa Gregorio XVI chiese esplicitamente  l’intervento austriaco.

Il Gabinetto di Vienna, visto che solo l’egemonia austriaca in Italia era direttamente minacciata e  considerate le inevitabili conseguenze della presa di Roma da parte dei patrioti,  ordinò di occupare immediatamente  Modena, Parma, Bologna e ristabilire i legittimi governi.

Il 5 marzo del 1831, mentre Ciro Menotti veniva prelevato dal Castello di San Giorgio dal delegato provinciale di polizia e consegnato al comandante della fortezza Mayier che lo fece rinchiudere nelle carceri militari di San Sebastiano, seimila Austro-estensi comandati dal tenente maresciallo Geppert assalirono a Novi, presso il confine mantovano, quattrocento insorti capitanati da Giovanni Villani e Antonio Morandi e dopo un accanito combattimento  avanzarono verso Modena. I vinti di Noví ritirandosi, portarono lo scompiglio in tutte le truppe che incontrarono.

 “La notizia di un così rovinoso scompiglio scrisse il generale Carlo Zucchi – mi giunse a Reggio nel colmo della notte. Capii abbastanza che, purtroppo, la paura aveva fatto perder la testa a tutti, e che l’unico decisione che restava da prendere era evacuare Reggio con la poca truppa che vi era stanziata, per vedere se era  possibile il riannodare la resistenza in qualche punto”.

Mentre  Francesco IV, il 9 marzo, alla testa di un corpo estense e di numerose truppe austriache, fornite d’artiglieria, entrava  a Modena da Porta S. Agostino e ordinava la riapertura del processo a Ciro Menotti, il Generale Zucchi riordinò gli insorti ai quali si aggiunsero le guardie nazionali e i membri del Governo provvisorio,e , alla testa di ottocento uomini, lasciato il territorio modenese si avviò per Castelfranco verso il confine bolognese.

Questa fu l’accoglienza: una lettera  dell’avvocato Giovanni Vicini in cui era scritto:
Il principio del non intervento fin qui rispettato da tutta Europa, e dal quale non intende declinare minimamente questo Governo provvisorio, finché non ci sia costretto da evidenti infrazioni da parte altrui, non consente che sia permesso a qualsiasi forza armata, straniera a queste province unite, di porre piede nelle medesime. Perciò, essendo venuto a notizia di questo Governo provvisorio che Ella, signor Generale, ha preso la deliberazione di ripiegare con le sue truppe dal modenese, e d’introdursi nella Província di Bologna, ci corre obbligo di dichiararle che le sarà concesso l’ingresso con il suo seguito nella detta provincia solo se depositerà le armi toccando il confine, così che l’accoglienza sia fatta non a gente armata, ma ad amici inermi”.

Il generale Zucchi dovette deporre le armi.

A Bologna il Governo delle Province Italiane Unite viveva nella certezza che gli Austriaci non avrebbero invaso i territori della Chiesa insorti; invece il generale austriaco Bentheim,  passato il Po e rafforzati i presidi di Comacchio e della cittadella di Ferrara, marciò sulla città, la occupò e vi ristabilì il governo della Santa Sede.

Il Governo delle Province Italiane Unite inviò immediatamente a Firenze il ministro Bianchetti, affinché trattasse con gli incaricati della Francia e dell’ Inghìlterra, e affidò al generale Zucchi il comando di settemila uomini, di cui solo 800 ritenuti validi , mentre soldati austriaci  comandati dal Frimont erano ventitremila.

La missione del Bianchetti fu tardiva e inutile.

L’Inghilterra non rispose. In Francia Luigi Filippo, intimorito dal Metternich – il Governo di  Vienna aveva in ostaggio il figlio di Napoleone I° , Francesco Giuseppe Carlo duca di Reichstadt – abbandonò la causa dei popoli oppressi, rinnegò ogni idea di proselitismo liberale, restrinse la sua politica nell’ambito dell’egoismo nazionale, sofisticando sulla dottrina del non intervento.

Quando i più autorevoli esuli italiani, tentarono, per mezzo del generale La Fayette e del ministro Lafitte, di indurlo ad impedire l’intervento armato dell’Austria in Italia, costrinse il Ministero Lafitte a dimettersi e gli sostituì quello presieduto da Casimiro Perier il quale  fece conoscere che la non  intervenzione non era che una parola : il sangue francese non dovevasi spargere che per la Francia; e in Parlamento disse: “Noi accettiamo la massima già stabilita del non intervento, teniamo fermo che lo straniero non ha diritto d’intervenire a mano armata negli altrui affari domestici. Questa massima la pratichiamo per nostro conto e la metteremo davanti in ogni occasione. Ma ciò non significa che noi dobbiamo portare le nostre armi dovunque non sia rispettata poiché sarebbe un intervento d’altro genere; si rinnoverebbero le pretese della Santa Alleanza, si cadrebbe nella chimerica ambizione di tutti coloro che vollero sottometter l’Europa al giogo di una sola idea, ed effettuare la monarchia universale. La massima del non intervento intesa in questo modo servirebbe di stimolo allo spirito di conquista. Questa massima la sosterremo ovunque, ma con le negoziazioni. L’utilità e la dignità della Francia unicamente potrebbero indurci a impugnare le armi: ma non concediamo ad alcun popolo il diritto di costringerci a combattere in suo vantaggio, perché il sangue dei Francesi appartiene soltanto alla Francia”.

Il lavoro dei Comitati Cosmopoliti fu  vanificato.

Le Autorità francesi presero, inoltre,  energici provvedimenti ostacolando gli aiuti del “volontarismo militare”  fermando gli  esuli di ogni provenienza che si apprestarono ad accorrere in Italia in soccorso della rivoluzione.

Dei 2500 uomini, tra cui Giuseppe Mazzini, che si erano raccolti a Lione per marciare contro la Savoia, i più vennero dispersi dai funzionari prefettizi e i 400 circa, che nella notte del 24 febbraio osarono prendere la via del confine, furono raggiunti dalle truppe a Mexmieux  e ricondotti a forza a Lione. Anche a Guglielmo Pepe,  che si era recato a Marsiglia con l’intento d’imbarcarsi per l’Italia centrale,   fu impedito di partire e la nave, noleggiata dall’ agitatore cosmopolita Misley per recare soccorso di armi ( due cannoni, milleduecento fucili e una grande quantità di munizioni ), e di uomini (diverse centinaia)  sulla costa della Lunigiana, fu messa sotto sequestro.

Giuseppe Mazzini, costretto all’esilio dopo il processo di Savona, con altri esuli, si recò in Corsica con il proposito di raccogliervi uomini e di condurli in Italia. Ma anche il suo progetto  non ebbe fortuna. “Mancava il denaro per il noleggio dei navigli e per un lieve sussidio che bisognava lasciare alle famiglie povere di quegli isolani che volevano seguirci. E questo denaro, che era stato, a quanto dicevano, sacramentalmente promesso da uomini legati ad un Bonardi, prete patriota e affiliato al Buonarroti, non giunse mai. Due dei nostri, Zappi e un Vantini dell’Elba (poi fondatori di parecchi alberghi a Londra e altrove) furono inviati al Governo provvisorio di Bologna per offrire aiuti ma anche per chiedergli una somma indispensabile, ma da quel Governo inetto che si fidava solo della diplomazia e aveva paura delle armi, ebbero le risposta come se fossimo stranieri barbari: Chi vuole la libertà se la compri”.

Tuttavia il 18 marzo undici uomini riuscirono a sbarcare sulla costa toscana tra Viareggio e Motrone, ma a Stazzema furono arrestati e condotti a Livorno, dove il 7 aprile nove furono rilasciati  con l’obbligo di uscire immediatamente dalla Toscana; due furono invece condotti a Firenze. Uno di questi, Felice Argenti, consegnato all’Austria, fu mandato allo Spielberg e graziato dopo un anno e mezzo di prigionia in quella fortezza.

 

A Bologna, dopo  la presa del potere, i liberali pensavano ai proclami, a come fare la costituzione, quando invece la prima cosa da fare era quella di formare subito un esercito.

 

Il 19 marzo il generale Frimont annunciava in un proclama che, per ordine dell’Imperatore, “entrava con un corpo di truppe imperiali nei domini appartenenti al Pontefice, nei quali i rivoluzionari avevano rovesciato il Governo legittimo e usurpato il potere supremo”.

 

Il giorno dopo, il Governo delle Province Italiane Unite abbandonava Bologna e si avviava ad Ancona per trasferirvi la sede, portandosi dietro il cardinale Benvenuti.

Il 21 marzo il generale Frimont occupava, senza incontrare ostacoli, Bologna e ne affidava il governo al Cardinale  Opizzoni.

Per salvare le apparenze, l’ambasciatore francese a Roma, signor di Sain-Aulaire, si limitò a protestare presso la Curia:”Il sottoscritto, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, avendo saputo che le milizie austriache sono penetrate nelle terre della Chiesa ed hanno occupato la città di Bologna, si trova nell’obbligo di dichiarare ai rettori pontifici che il governo francese non saprebbe ammettere il principio in virtù del quale si è effettuata questa occupazione né consentire ad uno stato di cose che, spingendo le armi dell’Austria al di là dei limiti dei suoi propri domini, porti un colpo funesto al sistema politico d’ Italia e distrugge per via di fatto l’indipendenza della Santa Sede. In vantaggio di questa medesima indipendenza, di cui la Francia si è mostrata sempre gelosa, non meno che per sostenere la dignità della nazione, il sottoscritto ha avuto l’ordine di protestare; e protesta nella maniera più solenne contro l’occupazione di una qualunque parte degli stati del Papa per opera di una forza straniera e contro le conseguenze che ne potrebbero risultare a danno della pace, che il governo francese si è applicato fino a questo giorno di conservare con tutte le facoltà che sono in poter suo. Nel medesimo tempo che partecipa a tutte le amarezze delle quali il cuore del romano Pontefice è stato abbeverato fin dai primi giorni del suo papato, il governo di S. M. Cristianissima è convinto che la via della clemenza e la concessione volontaria delle riforme riconosciute necessarie nelle amministrazioni delle province, dove la rivoluzione si è operata, dovessero esser rimedi più salutari e più soddisfacenti che il sostegno sempre pericoloso di una forza materiale straniera. Egli pensa e spera che questi provvedimenti saranno presi in considerazione dall’alta saggezza di Sua Santità come i soli efficaci modi per ricondurre gli animi ad una sottomissione sincera e per accelerare il termine di un’assistenza estranea che può dare origine a più gravi complicazioni”.

Incalzato dagli Austriaci, il generale Zucchi si diresse con le truppe divise in due colonne, verso Rimini. Qui, il 25 marzo, avendo avviata la maggior parte dei soldati a Fano e a Senigallia, si vide costretto a proteggere la ritirata dei suoi impegnando, con appena millecinquecento soldati che componevano la sua retroguardia, un disuguale combattimento contro il generale Mengen che, alla testa di cinquemila uomini, avanguardia del corpo del generale Geppert, incalzava gl’Italiani.
La battaglia fu accanita. A Rimini sul campo di Celle dinanzi a Porta S. Giuliano, “il primo Esercito Italiano”, formato da  volontari, tra cui Manfredo Fanti e Celeste Menotti fratello di Ciro, comandato dal Gen. Carlo Zucchi, sostenne con grande valore l’urto dell’Esercito Austriaco, composto da  un ingente numero di soldati, perfettamente armati ed equipaggiati.

 

Descrizione del campo di battaglia, dopo lo scontro, tratto dalla Fantasia Lirica  “Une nuit de Rimini en  1831” di Giuseppe Mazzini, pubblicata la prima volta nel giornale Le National di Armando Carrel, :

“Era la notte del 26 marzo. Una notte bella, quieta, serena; la luna illuminava col suo dolce chiarore la campagna di Rimini ….

Ma vi erano là, sotto quel cielo puro e sereno, su quella terra fertile e ridente, degli uomini …

Era uno spettacolo terribile: moschetti spezzati, sciabole il cui taglio era smussato a forza di colpire, tronconi di spade, crani fessi, cadaveri sparsi.

Eravi un vessillo tricolore; la luna vi batteva in pieno e vi si sarebbe potuto leggere queste due parole: INDIPENDENZA ITALIANA!

Era un vessillo annerito dal fumo, traforato dalle pallottole, come una vecchia bandiera di Austerlitz; eppure non era un mese che la giovinetta che l’aveva ricamato lo dette con l’ultimo bacio al giovane studente bolognese; il braccio che l’aveva sostenuto eravi attaccato; la morte aveva potuto agghiacciarlo, ma non farglielo abbandonare; si era irrigidito contro la morte e il brando austriaco non aveva potuto che separarlo dal tronco”.

La Bandiera Tricolore rimase bensì vinta ma non macchiata.

 

Dopo questo combattimento, le truppe italiane riuscirono a proseguire indisturbate la ritirata verso Pesaro e Fano. Il Gen. Zucchi doveva raggiungere a Fano le restanti truppe per poi riunirsi a quelle improvvisate guidate dal Gen. Giuseppe Sercognani che era arrivato fino a Rieti. Insieme dovevano muovere su Roma.

Anche al Gen. Zucchi, come al Gen. Sercognani, fu ordinato dal Governo di Bologna di non marciare su Roma in quanto ad Ancona stava per essere stipulata una convenzione.

Questo il preambolo:

In seguito all’occupazione di una parte delle “Province unite italiane”, fatta dalle truppe di S. M. I. R. A., e della dichiarazione del loro generale in capo di voler procedere alla occupazione del restante territorio; quelli i quali hanno assunto ed esercitato il governo provvisorio delle dette province, vedendosi impegnati in una lotta impari che porterebbe a conseguenze dannose sia alle truppe che alle province, hanno deciso, per quanto è in essi, di risparmiare una inutile spargimento di sangue e di prevenire qualunque ulteriore disordine. A tale effetto, hanno deputato i signori generali Armandi, conte Bianchetti, Lodovico Sturani  e professor Antonio  Silvani a recarsi da S. E. R. il signor cardìnale Benvenuti, già munito da S. S. Papa Gregorio XVI dei poteri di legato a Latere, onde rimettere come prima le province insorte nelle braccia del Santo Padre, e così ridonare la tranquillità allo Stato Pontificio”.

Tutti i membri del governo, eccettuato Carlo Pepoli assente, firmarono il documento originale. Solo il conte  Terenzio Mamiani della Rovere ritirò il suo nome dal documento.

Il Presidente del Governo il 26 marzo dava comunicazione ai popoli delle province insorte della stipulata convenzione con il seguente manifesto:“Un principio proclamato da una grande nazione, la quale aveva solennemente assicurato che non ne avrebbe permessa la violazione per parte di alcuna potenza dell’Europa, e le dichiarazioni di garanzia date da un ministro di quella nazione ci indussero ad assecondare il movimento dei popoli di queste province. Tutte le nostre forze furono dirette al non facile mantenimento dell’ordine in mezzo alle agitazioni di una insurrezione, ed avemmo la compiacenza al nostro cuore gratissima di vedere la rivoluzione compiersi con la quiete propria di un governo costituito e senza lo spargimento di una goccia di sangue. Ora la violazione di quel principio, consentita dalla nazione che lo aveva garantito, la impossibilità di resistere con successo ad una grande potenza, che ha già con le armi occupata una parte delle province, e il desiderio nostro di risparmiare le stragi e i disordini, ci hanno consigliato, per causa della salute pubblica, che pure è legge suprema di ogni Stato, di entrare in trattative con  S. E. R.”

Il cardinale Benvenuti diede“…. la sua sacra parola che nessun individuo dello Stato pontificio di qualunque classe e condizione, anche se considerato come capo e principale fautore, sarebbe stato mai perseguitato, molestato o turbato nella sua persona o nella sua proprietà, sotto nessun pretesto o ragione della sua passata condotta e di diversa opinione politica e di qualunque mancanza contro la sovranità della Santa Sede e del suo Governo”.

Appena la convenzione fu pubblicata insieme con una generale amnistia, le truppe dello Zucchi si sciolsero e lo stesso fecero quelle del Sercognanni.

Furono dichiarate nulle le leggi emanate dai diversi governi provvisori e si esiliarono i patrioti i quali si imbarcarono da Ancona per la Francia, Corfù e l’Inghilterra.

Sul brigantino “Isotta” si imbarcarono in 104 ma il 30 marzo navi da guerra austriache, comandate dal vice-ammiraglio Bandiera, catturarono il brigantino e i patrioti furono fatti prigionieri, riportati ad Ancona, imbarcati sull’”Italiano” e  condotti  a Venezia, dove furono rinchiusi nella Fortezza di S. Andrea al lido, quindi, nelle carceri di San Severo presso i Piombi. Roma si oppose alla detenzione dei patrioti tra cui Celeste Menotti, il Conte Terenzio Mamiani della Rovere e l’avv. Antonio Zanolini, ritrattista dei prigionieri; l’Austria, solo nel luglio 1832, li fece imbarcare sulla nave “Abbondanza” e dopo 100 giorni  furono sbarcati a Tolone per essere inviati in Inghilterra e in Svizzera.

L’ultimo ad essere liberato fu Celeste Menotti.

 

Carlo Zucchi, reo di alto tradimento, sottoposto a un Consiglio di Guerra fu condannato a morte, condanna commutata in 20 anni di prigionia prima nelle carceri di Munckarz, poi nella fortezza di Palmanova, donde lo trasse la rivoluzione del 1848.

 

La Convenzione di Ancona, ratificata il 27 marzo metteva fine ai moti insurrezionali del 1831 così descritti da Giuseppe Mazzini in “ D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia”:

 “ che volevano gli insorti?

Chiedetelo al pensiero che ordinava quei moti, chiedetelo al fremito generoso che invase l’intera penisola, quando narrarono i colpi di fucile tratti dalla casa Menotti, all’ardore che fece correre all’armi la gioventù di Bologna, quando il vento ad essa recò l’eco del cannone di Modena, all’entusiasmo della gioventù parmigiana non avvertita, non coordinata, alle stampe, ai bandi, alla Bandiera che sventolò tra quei moti.

Quella bandiera fu la bandiera italiana, quei colori erano i nazionali italiani, quelle prime voci erano voci di Patria, di fratellanza.

Quel fremito, quel tumulto, quel moto era il voto dei forti concentrato allora intorno ad un nome : al vecchio nome d’Italia, a quel nome immenso di memorie, di gloria, di solenne sventura, che i secoli di muto servaggio non avevano potuto spegnere.

Gli insorti volevano l’unità, l’indipendenza, la libertà dell’Italia: volevano una patria, volevano un nome con il quale potersi presentare al congresso futuro dei popoli liberi.

La gioventù insorta non si arrestava davanti ad ostacoli di lunga guerra o di disagi d’ogni genere:

chiedeva la gioventù bolognese d’invadere la Toscana;

chiedevano i nazionali di Reggio e Modena di conquistare Massa e Carrara alla libertà;

chiedevano le guardie civiche, condotte da Zucchi, di muovere per la strada del Furlo al Regno di Napoli.

Ogni uomo a quei giorni – tranne chi reggeva- sentiva profondamente che si trattava d’una causa italiana, non bolognese o modenese; ogni uomo – tranne quei del governo- sentiva ch’era venuto tempo per gli Italiani di manifestare alla Nazione e all’Europa con qualche atto solenne il loro concetto, il principio che li guidava, la intenzione in che s’erano mossi – del resto non curavano. Quel primo momento di rivoluzione, di manifestazione generosa è si bello, bello di sacrificio individuale, di speranza infinita e di audacia titanica, che può scontrarsi colla morte in campo o sul palco; né gli insorti pensavano allora doverlo, per inerzia di pochi, scontar col ludibrio …”

Riprese il processo a carattere puramente formale contro il Menotti, ricondotto segretamente a Modena il 23 aprile del 1831 dal tenente Stanzani che lo  rinchiuse nelle carceri dell’Ergastolo. Fu nominato Avvocato difensore un giovane ufficiale del Battaglione di linea, Francesco Ricci, il quale si avvalse di un noto professionista, l’avv. Giacomo de Giacomi. Ripresero gli interrogatori; il Menotti non si smentì, non rilevò né la complicità del Duca né la provenienza dei fondi del movimento. Respinte le eccezioni giuridiche addotte dal Ricci, ( Francesco IV con il rescritto del 12 febbraio aveva già dichiarato reo il Menotti ) questi nella seduta del 9 maggio 1831 affrontò deliberatamente il tema della responsabilità del Duca; ciò portò alla chiusura immediata del processo con questa motivazione stesa da Pier Ercole Zerbini: “Ciro Menotti, capo e direttore della congiura, dotato di non comuni talenti e di una finezza pressoché invidiabile si è reso confesso … Confessa egli che fin dall’ottobre dello scorso anno, dietro gli eccitamenti del dr. Enrico Misley datigli da Parigi, si lanciò nella carriera del delitto”. La sentenza di condanna a morte per lesa maestà, il 15 maggio,  fu comunicata dallo stesso Zerbini al Duca  che si trovava nella sua residenza estiva  nel castello del Cattajo (Padova), massiccio edificio del XVI secolo, costruito su disegno di Marco Polo. L’edificio, il cui nome potrebbe derivare da Ca-tai, denominazione medievale di una provincia della Cina,  sta a metà tra il castello militare e la  villa  principesca. E qui  il Duca firmò la condanna a morte “ infame sulla forca e alla confisca dei beni  tutti” di Ciro Menotti. A nulla valse la richiesta di grazia per  il Menotti del ciambellano conte Francesco Guidotti.

Il Duca, ritenendo che la singolarità di una unica esecuzione potesse essere politicamente pericolosa, condannò a morte anche Vincenzo Borelli, responsabile di aver sottoscritto con altri  settantuno cittadini modenesi  la “Dichiarazione” antiducale di Biagio Nardi, rendendosi colpevole del delitto di lesa Maestà , al pari di tutti gli altri firmatari. Lo stesso giudice Zerbini, noto per la sua ferocia, nel trasmettere la sentenza di morte del Borelli, invocò la clemenza del Sovrano, che fu però irremovibile. Due ore prima dell’esecuzione il Menotti chiese e gli fu concesso di scrivere una lettera alla moglie, lettera sequestrata dal giudice Zerbini. Inutilmente il curato della Chiesa della Cittadella Don Francesco Maria Bernardi si offerse di recapitarla, come richiestogli in confessione  dal condannato. L’impiccagione fu eseguita nel Baluardo della Cittadella detto dell’Ergastolo, verso la piazza della Colonna. Di fronte al patibolo furono schierate due compagnie di granatieri e nella vicina piazza della Colonna  due compagnie di Ungheresi: non vi fu un sol tocco di tamburo.

Il giudice Zerbini comunicò al Duca l’avvenuta esecuzione con queste parole: “… gli ordini che S.A.R. si degnò abbassarmi furono questa mane alle sei e mezza antimeridiani eseguiti colla consumata esecuzione sopra i due condannati Menotti e Borelli ..”   Non parla di esecuzione di sentenza quanto di esecuzione di un ordine.

Se il cronista della Corte Ducale di Modena,  Francesco Sossai, scrisse alla data del 26 maggio 1831 “Dalle ore 6,30 alle 7,30 sul bastione davanti alla destra della Cittadella vengono tratti a morte primo il Dottor Vincenzo Borelli, poscia in altra forca vicina Ciro Menotti…..”, certo è che il supplizio durò lento e atroce e al Menotti si negò l’uffizio del tirapiedi; da qui traspare la crudeltà del Duca e la rabbia per una speranza sfumata e rinnegata.

Le ultime parole del Menotti furono “ La delusione che mi conduce a morire farà aborrire agli Italiani ogni ingerenza straniera nei loro interessi, e li avvertirà a non fidarsi che nel soccorso del loro braccio … Io muoio innocente; non ho immaginato mai di uccidere il Duca: gli ho salvato anzi due volte la vita. Non me ne pento: perdono a colui che mi assassina e prego che il mio sangue non cada su di lui e su i suoi figli”

Don Francesco Maria Bernardi fece togliere dalla carretta le salme di Menotti e di Borelli  che furono   seppellite  nel campo sconsacrato dei condannati  sito a fianco del cimitero S. Cataldo di Modena.

Il 13 giugno il Duca dispose che le sostanze dei due giustiziati “fossero impiegate in primo luogo per il mantenimento delle loro vedove e per la educazione dei figli del Menotti, destinando il rimanente ai poveri, con una distribuzione conosciuta e che l’entità delle sostanze, nessuna andasse a profitto del regio erario”.

Nel mese di luglio i soldati austriaci saccheggiarono la casa Menotti, disperdendo quanto vi era, fra cui una copiosa biblioteca.

La Famiglia Menotti, il 26 maggio 1831, con l’impiccagione di Ciro, a soli trentatré anni, e la confisca dei beni tutti mai restituiti  (dagli atti del ministero delle finanze  dal 1814 al 1859 filza 1 n. 21 , risulta che nell’estate del 1826 , a confronto di un passivo di generale di lire 231.097,87 stava per le sole proprietà fondiarie un attivo di lire 618.933,129 ),  comincia il suo esilio.

Da una lettera, datata 4 settembre 1831, scritta da Francesca Moreali Menotti ad Enrico  Misley:

“ Nelle grandi avversità della vita il miglior conforto per gli infelici è certamente quello di veder gli amici a prendervi parte, e così può ella figurarsi  come accetta sia stata l’umanissima sua del 12 passato i cui sentimenti amichevoli mi provano esser lei uno dei pochi veri amici che mi sono rimasti dopo che vidi sparire quella moltitudine che in un tempo di prosperità mi apparivano tali senza che realmente lo fossero. Penetrata da un sentimento di riconoscenza per le cordiali espressioni ch’ella mi usa non posso a meno del prevalermi delle di lei esibizioni per interessarla maggiormente a prendersi cura della disgraziata mia  famiglia , e particolarmente dell’educazione che riguarda il mio Achille. La mia situazione è certamente deplorabile perché isolata, abbandonata da ognuno e ristretta a  finanze in guisa di non potere convenientemente educare i miei figli e supplire a quelle molte cose  che purtroppo occorrono a una famiglia. Conseguenza di questa ristretta posizione  è la circostanza a lei nota della confisca che già venne fatta di tutti i beni del mio povero marito per parte di colui che si prefisse lo sterminio della desolata mia famiglia. 

Il patrimonio di lui rimane talmente depauperato pei molti pesi che lo gravitano che non ostante delle apparenti generose concessioni in chi non può essere suscettivo ad umani sentimenti e atti generosi nessunissima speranza può in quello rimanermi di risorsa a pro  dei miei figli, talché tutto si riduce a quel pochissimo che particolarmente  mi riguarda, ma che in parte non è pur libero mercé alcune obbligazioni che nei scorsi tempi  dovetti incontrare per le occorrenze di mio marito.

Questo quadro le darà un’idea della mia trista posizione,…”

Dolore, rassegnazione, esilio e conseguente isolamento furono le tappe obbligate percorse dalla moglie e dai figli. Francesca Moreali sarebbe potuta rimanere a Spezzano ma a dure  condizione per cui preferì recarsi a Bologna, ma, mal tollerata  fu presto respinta dai governanti bolognesi. Andò nel Gran Ducato di Toscana: Firenze, Lucca, Siena, Pisa.

Dalle lettere della figlia Polissena. “Or qua or là ci posiamo , non mai fissi in una dimora, come l’uccello dalla bufera privato del nido”. E quando “quel misero avanzo di famiglia” (madre e figlia, i tre fratelli erano in Francia) nel giugno del 1843  ritornò a Spezzano per curare i poderi di proprietà Moreali, lasciati ormai incolti e abbandonati,  tutti sfuggivano le due donne, il solo nome Menotti bastava a diffondere intorno un disagio generale. “Non una persona, non un amico solo che s’interessi a noi, nessuno che incomba agli affari nostri. Tutti schiavi di bassi pregiudizi e di paura, d’un nulla si spaventano. Un nome un nome li atterra, come se  ogni lettera del nostro casato portasse con sé migliaia di baionette  …”

 

Achille Menotti conferma la confisca dei beni tutti e il saccheggio della casa di Corso Canalgrande in una lettera scritta a Torino nel 1870  al fratello:

“ Ti riscrivo, mio Massimiliano, sul proposito di quel … libraio, il quale, mi mandò un pistolone con un corredo di frasi rimbombanti e colla conclusione di non so qual credito verso nostro padre, facendo appello agli eredi. Risposi brevemente che laddove non c’era stata eredità, non vi potevano essere eredi e che il fisco solo sarebbe in caso di liquidare i conti, ove conti ci fossero, In fatto d’interessi, sono rigoroso allo scrupolo; ma quale solidarietà vi può  essere fra noi e un patrimonio, che fu disperso, annichilito deliberatamente coll’aggiunta del saccheggio alla casa? Quel poco che abbiamo viene da nostra madre e i creditori verso quel fu patrimonio hanno tante ragioni  verso o contro di noi, quante ne avrebbe  un generale francese che, volendo fare la guerra alla Prussia, cominciasse dal prendere Pamplona agli Spagnoli in pace colla Francia. Quel signor libraio ha delle strane idee sulla validità dei crediti, sui quali sono passati anni di molto. Era nel 59 e 60 che la pedina per parte sua dovea esser mossa. Allora era il momento di rivolgersi al governo nuovo e di sollecitarlo a mettere i discendenti del debitore nella possibilità di soddisfare alle passività di uno stato interamente scomparso per la rapacità e la malvagità degli antichi governanti. Perché quel signore non l’ha fatto? Come il Regime presente, per la magnanimità liberale che lo distingue, paga qua e là delle grosse somme a degli ex sovrani e rende i beni a quei principi che divennero 50volte milionari sulle finanze degli Stati, non è dubbio che esso Regime avrebbe trovato in un cantuccio del suo cuore patriota una fibra sensibile a prò di coloro che non avevano avuto altro torto che di avere troppo presto ragione, mentre questo torto l’avevano anche pagato a prezzo della vita. Allora si che le cose sarebbero andate di buone gambe e chi sa, forse, che gli stimoli dei creditori non avessero procacciato ai presunti eredi qualche fruscolo di una fortuna ormai irreparabilmente svanita?

Oggi noi, in qualità di eredi di una eredità assente non abbiamo altro da dire che là dove nulla c’è il Re perde i suoi diritti. Voglio credere però che nulla avremo da dire, poiché la domanda di quel tale lo qualifica davvero un babbéo. Qui dura il bel tempo …”

Dopo i moti del 1831, Francesco IV  governò con un ferreo dispotismo avvalendosi dei consigli di Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa. Loro strumento fu il giornale “ La Voce della Verità”, diretto da Cesare Galvani, il quale ebbe tra i  primi collaboratori lo stesso Duca e sua  moglie, il Canosa, Cosimo Andrea Samminiatelli e Francesco Garofolo, Capo della Polizia.

 

Il iornale “La Voce della Verità”, fin dal primo numero uscito martedì 5 luglio 1831, (chiamato dai liberali “ la Tromba della Menzogna”), non esitava ad accusare con calunnie e diffamazioni di ogni sorta gli artefici del moto, etichettando i liberali come veri e propri anticristi, per  aver mosso guerra alla Chiesa.

Per combattere calunnie e diffamazioni nei confronti del Menotti, Giuditta Sidoli scrisse al Misley :

Ginevra 15 luglio 1831

Preg.mo Amico,

credevo che per coloro che conosciuto hanno Ciro Menotti nulla potesse essere più doloroso che di averlo perduto …  ma mi sono ingannata, e me lo prova ciò che io soffro , dopo aver letto su un giornale che sparge dei dubbi sulla rettitudine della condotta di Ciro, ed aver sentito come questi oltraggiantissimi sospetti sono ormai nella mente di molti buoni. Se anche volessi far tacere  nel mio cuore il vivissimo sentimento di amicizia che mi lega alla memoria di Ciro, mi sentirei un dovere giustificarlo avendo conosciuto la di lui condotta, e poiché la sventura mi toglie di comunicare con Celeste, non saprei tranne lei a chi meglio dirigermi. Parmi dunque che tutto ciò che può contribuire a schiarire le relazioni col Duca, debba ormai essere messo agli occhi del pubblico nessun riguardo vi potendo più  essere dopo che il mostro ha consumato l’orrendo misfatto. Tutto si faccia affinché il nome di Ciro acquisti lo splendore che gli ha meritato tanto patriottismo, a che quall’astro brillante sorga il di lui nome a spargere un’indelebile luce sul vasto orizzonte dell’avvenire, a conforto e a sprone di ogni vero sentimento di amor di Patria  ……..

 Attendo con impazienza una di lei risposta; la causa che mi muove non ammette ritardo, credo che sì in questo momento che in ogni tempo troverò sempre pronto Misley per ciò che può contribuire alla gloria del nome dell’incomparabile nostro Ciro.

Di Lei Sincera Amica

Giuditta Sidoli

 

Così il Misley si rivolse  a  Carlo Luigi Napoleone Bonaparte (Presidente della Repubblica francese dal 1848 al 1852 e   Imperatore dei Francesi dal 1852 al 1870 col nome di Napoleone III).

 Parigi, li 24 luglio 1832

A Luigi Napoleone Bonaparte,

Sto scrivendo, per pubblicarla, la relazione della parte ch’io presi nelle cose d’Italia : mi è domandata da coloro che pensano averne diritto non per altro se non perché  si sono lungamente esercitati sul mio nome. Questo motivo mi salva  di ogni sospetto di vanità s’io imprendo a parlare di me al pubblico.

La fortuna mi permette di poter corroborare le mie parole colla testimonianza de’ più onorati uomini nostri: e fra le varie cose ch’io vengo a dire  è come il Duca di Modena, consentendo a’ miei tentativi per operare una rivoluzione in Italia, abbandonasse poi l’impresa dopo la rivoluzione di  Francia del 1830.

So che l’ ottimo nostro Ciro Menotti ne’ suoi frequenti viaggi  di Romagna e di Toscana, ove recavasi per combinare i nostri progetti con quelli dei liberali di colà , ebbe occasione di confidare tal cosa anche a V.S. ed al degno suo fratello. e di palesar loro come, di accordo con me’ , egli frequentasse il Duca, dopo che ci aveva abbandonato, solo per tenerlo a bada ed eluderne la sua vigilanza.

Desidero ( cancellato:appoggiare questa asserzione) citare questo fatto colla testimonianza di qualche nome al di sopra di ogni eccezione, ne’ so’ meglio che a Lei rivolgermi, pregandola a compiacermene per quell’ amore della verità che nelle anime gentili suole andare  innanzi ad ogni altro sentimento. Ella poi, che seppe apprezzare le virtù dell’ ottimo amico mio, vorrà  tanto meno ricusarmi la  testimonianza che le richiedo, in quanto che essa può  anche imporre eterno silenzio ad alcuni sciagurati, che non paghi d’ aver sparso dei dubbi sul patriottismo di Menotti ancora vivo,  e di aver persino prezzolato il coltello di sicari per assassinarlo come un traditore, non temono di insultare la sua memoria e di avvilire quella fossa ove la  Patria, in miglior destino, sarà superba un giorno di erigere un altare.

La pregherei di tener presente che la sua risposta dovrà  mettere in luce queste tre circostanze, risultanti dalle parole di Menotti:

1° che fino alla rivoluzione di luglio il Duca vagheggiava il progetto di una rivoluzione italiana;

2° che dopo quell’ epoca se ne ritirò;

3° che la frequenza di Menotti  col Duca non aveva, dopo ciò,  altro scopo che eludere la sua vigilanza ( cancellato: e tenerlo lontano dal sospettare le) sulle operazioni che si andavano preparando.

Che se per qualsiasi riguardo ch’io rispetterei Ella volesse evitare di (cancellato: mettere nelle mani del pubblico una prova di quel magnanimo zelo con cui Ella) asserire pubblicamente che Ella ed il suo valoroso fratello ( cancellato: entrarono nei progetti d’allora) cospirassero insieme a Menotti, può pur sempre rilasciarmi l’attestazione che le chiedo con dire ch’ Ella e suo fratello, essendo nella più intima confidenza di Ciro Menotti, ebbero perciò occasione di conoscere quei segreti i quali per particolari circostanze sapevano essere a notizia di altri stimabili italiani.

Attendendo con ansietà c’ Ella mi onori di una sua risposta, e se non temessi dispiacere alla nobiltà del suo cuore vorrei scusarmi con Lei del disturbo che le reco. La ringrazio però  vivamente in questo incontro delle cortesi espressioni della sua lettera del 14 aprile scorso. La prego di tenermi nel numero dei suoi ardenti estimatori e di disporre dei miei servizi in ogni uopo: la debolezza delle forze sarà sempre sostenuta dal buon volere.

Ho l’ onore di essere con profondo rispetto

                                                                                                   Suo dev.mo servitore

                                                                                                         Enrico Mislej    

 

Questa fu la risposta di  Carlo Luigi Napoleone Bonaparte:

Arenenberg, 18 juiller 1832 

Monsieur,

Vous me domandez quels furent mes rapports avec votre malheureux ami Ciro Menotti: je vous réponds avec d’autant  plus de plausir que tout homme doit se trouver heureux  de faire connaitre  la vérité et défendre la réputation de ceux qui ne sont plus.

Menotti vint trouver mon frère et moi dans l’hiver de 1830; il nous dit qu’il se préparait un mouvement en Italie et nous demanda quelles ètaient nos intentions: nous lui répondimes que si notre nom pouvait etre utile à la cause italienne nous montrerions notre dévouement dès que la Romagne serait soulevéé, mais qu’auparavant nous ne pouvions et ne voulions pas nous  meler d’intrigues. Il nous dit qu’il avait été pendant longtemps l’agent du Duc de Modène, qui voulait faire naitre une revolution en Italie, mais depuis les barricades de Paris le Duc, ayant changé d’opinion, il ne le fréquentait que pour endormir ses soupçons.  Il ajouta que si une révolution éclatait, il ferais tous ses efforts pour qu’il n’arrivat aucun mal à la personne du Duc. Comment a-t-il été récompensé de ses intentions généreuses!

Voilà , Monsieur, le récit exact de ce que nous communiqua dans la courte entrevue que nous eumes avec lui. Ces souvenirs sont bien cruels pour moi, puisqu’ils me rappellent la mort de mon frère, le supplice d’un brave et un échec de la liberté.

Adieu, Monsieur, croyez en politique comme en particulier à la sincérité de mes sentiments.

                                                                                                   Napoléon Bonaparte

J’ai antidaté ma lettre  avec intention.

 

 

Giuseppe Garibaldi, impegnato nella guerra per l’indipendenza riograndense dall’Impero del Brasile e  che seguiva con viva apprensione gli avvenimenti italiani, volle chiamare il suo primogenito, nato il 16 settembre del 1840 in un campo militare, Menotti perché “meglio si affà il nome di un Martire che quello di un Santo”.

 

 

Parte della famiglia Menotti ritornò a Modena solo nel 1848, essendosi istaurato anche se momentaneo un  libero governo.

 

Il I° aprile, Virginia Menotti, esule per voto e figlia di esuli, insieme al figlio Egidio e a  due figli del Martire, Adolfo e Polissena, gli altri due, Achille e Massimiliano, si trovavano ancora in Francia dal nonno paterno e Francesca Moreali era  impedita dalle cattive condizioni di salute, si recò a rendere per la prima volta gli onori funebri  a Ciro. Durante la cerimonia della traslazione dal campo dei giustiziati al cimitero di San Cataldo,  Virginia pose sulle ceneri del fratello Ciro la bandiera italiana su cui era scritto: “Quel giorno in cui moriva assassinato da un tiranno, io giurava non più rivedere la Patria che quando libera fosse dai manigoldi. Dopo 17 anni di lacrimevole esilio piacque a Dio onnipossente di esaudire il mio voto, e qui sulla tomba dove dormi dai buoni compianto, godo finalmente di inalberare lo stendardo che ti costava la vita: ho così adempiuto a un sacro dovere, son paga. Gradisci, o mio Ciro, il tributo di infelicissima donna che, prima del martirio t’ ebbe caramente diletto , e fu dopo gloriosa  d’esserti sorella.”

Il 31 maggio fu occasionalmente rinvenuta, tra le carte del cessato Ministero di Buon Governo, dal delegato del Dipartimento di Polizia del Governo Provvisorio e immediatamente consegnata a Francesca Moreali , dopo 17 anni,  l’ultima lettera  di  Ciro :

« Alle 5 e mezza ant. del 26 maggio 1831. Carissima moglie. La tua virtù e la tua religione sieno teco e ti assistano nel ricevere che farai questo mio foglio. Sono le ultime parole dell’infelice tuo Ciro. Egli ti rivedrà in più beato soggiorno. Vivi ai figli e fa loro da padre ancora; ne hai tutti i requisiti. L’ultimo amoroso comando che impongo al tuo cuore è quello di non abbandonarti al dolore. Vincilo e pensa chi è che te lo suggerisce e consiglia. Non resterai che orbata di un corpo che pur doveva soggiacere alla sua fine. L’anima mia sarà come divisa teco da tutta l’eternità. Pensa ai figli e in loro seguita a vedervi il loro genitore, e quando l’età farà conoscere chi ero dirai loro che ero uno che amò sempre il suo simile. Fò te l’interprete dell’ultimo mio congedo con tutta la famiglia: io mojo col nome di tutti sul cuore, e la mia Cecchina lo invade tutto. Non ti spaventi l’idea dell’immatura mia fine giacché Iddio mi accorda forza e coraggio sin qui d’incontrarla come la mercede del giusto; mi farà grazia fino al fatal momento.Il dirti d’incamminare i  figli sulla strada della virtù è dirti ciò che hai sempre fatto; ma dicendo poi loro che era tale l’intenzione del suo genitore crederanno di onorare e rispettare la mia memoria ancora ubbidendoti. Cecchina mia, prevedo le tue angosce, e mi si divide il cuore alla sola idea. Non abbandonarti; tutti dobbiamo morire. Ti mando l’ultimo pegno che mi rimane: dei miei capelli. Danne in memoria alla famiglia. Oh buon Dio! quanti infelici per mia colpa; ma mi perdonerete. Do l’ultimo bacio ai figli; non oso individuarli perché troppo mi angustierei, tutti e quattro, e i genitori e l’ottima Nonna, la cara sorella e Celeste; insomma tutti vi ho presenti. Addio per sempre Cecchina; sarai sempre la madre de’ miei figli. In questo ultimo tremendo momento le cose mondane non sono più per me. Troveranno i miei figli e tu della pietà dopo la mia morte, più che ne sperassi vivendo. Speravo molto. Il Sovrano … ma non sono più di questo mondo. Addio con tutto il cuore. Ama sempre la memoria dell’infelice tuo                                             

                                                                                                           Ciro  

 

L’eccellente Don Bernardi che mi assisterà in questo terribile passaggio  si sarà incaricato di farti avere queste ultime mie parole. Ancora un tenero bacio ai figli ed a te sino che vesto terrena spoglia. Agli amici ai quali può essere cara la mia memoria raccomanda loro i figli miei. Ma addio, addio eternamente ».

 

La lettera autografa di Ciro scritta prima di salire al patibolo e la ciocca dei capelli, riposti  in uno scrigno d’oro con su scritto “non basta il piangerti”, furono custoditi da Virginia, donna colta, generosa, elogiata dal Mazzini per il suo ardente patriottismo, fino al 31 gennaio 1861 quando si spense  fra le braccia di Isabella Rossi Gabardi.

Mentre lo scrigno fu oggetto di un  furto, la lettera  passò a una figlia di Celeste, Ida Menotti vedova Danesi, che la conservò gelosamente fino al 1912 quando, per timore che andasse perduta, ritenne opportuno donarla insieme ad altri cimeli, all’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, al Vittoriano.

La lettera di Ciro, ritenuta una delle pagine più semplici e più vibranti del Risorgimento Italiano, dove traspare un profondo sentimento di umanità: “ quando l’età farà conoscere chi ero, dirai loro che ero uno che amò sempre il suo simile” e dove  per ben otto volte ricorda i  figli Achille, Polissena, Adolfo e Massimiliano, pur non nominandoli,  è il suo TESTAMENTO MORALE .

Così scriveva da Pisa il 16 gennaio 1843 Achille al fratello Adolfo:

Questa memoria ti deve essere cara e credo che il miglior modo di ravvivarla nello spirito degli uomini, che dimenticano facilmente, sia il nobilitare noi stessi colle buone azioni e se si può con l’ingegno. Vendichiamo quel caro estinto, vittima infelice e generosa, operando da uomini onesti e mostrando che il buon sangue non traligna”.

 

E i figli di Ciro fecero onore al nome del padre anche nella vita quotidiana sia pure in diversa misura come in diversa maniera:

 

– Achille (1817 – 1878) che ancora adolescente fu nel dicembre del 1831  mandato a Parigi dai coniugi Misley che lo trattarono come fosse loro figlio e poi a Batignolles presso lo zio Celeste, studiò alla Sorbona e divenne Direttore della Stampa. Stimato dal Cavour, fu nominato Segretario Generale del Ministero della Pubblica Istruzione; fece, inoltre, parte della Commissione per la trasformazione del Palazzo Ducale di Modena in Accademia Militare.

Eletto Deputato per varie Legislature del Parlamento Italiano, alieno da ambizioni personali, accettò le candidature solo per non rifiutare un onore che si voleva rendere alla memoria del padre Ciro.

 

– Polissena ( 1820 – 1860), legata da fraterna amicizia con Nicola Fabrizi, sentì molto la politica e tale sentimento era tenuto in lei vivo dal ricordo delle sventure sofferte.

 

– Adolfo (1824 – 1888), anche lui eletto Deputato del Parlamento Italiano, era uno spirito aperto e sensibile ai fermenti culturali dell’epoca.

 

– Massimiliano (1827 – 1889) si dedicò alla vita militare e seguì le sorti dell’Esercito Sardo e poi dell’Esercito Italiano, prendendo parte a tutte le guerre per l’indipendenza italiana.  Elogiato da Giuseppe Garibaldi per le sue qualità militari, fermo in fatto di disciplina, giusto e sempre pronto a dare l’esempio della precisione, della fatica e del coraggio, sapeva farsi rispettare ed amare nello stesso tempo.

Decorato di due medaglie d’Argento al V.M. insignito della onorificenza di Gran Ufficiale dell’Ordine dei S.S.Maurizio e Lazzaro, fu membro della Commissione permanente per l’esecuzione della legge 4 dicembre 1879 sulla reintegrazione dei gradi militari perduti per causa politica.

 

Nel 1889, con la morte di Massimiliano  si estinse il ramo genealogico diretto di Ciro.

Massimiliano dal 26 maggio 1929 riposa nella Cappella della Parrocchia di S. Giovanni Evangelista di Spezzano, a Fiorano Modenese, insieme ai resti mortali della madre Francesca, della sorella  Polissena,  del fratello Adolfo e del padre Ciro, che “morendo aprì il rosso divino solco dei martiri non chiuso fino a che la nostra gente abbia sete di gloria e  amore di virtù”(Epigrafe sulla Tomba  composta dall’avv. Fausto Bianchi, allora Deputato al Parlamento).

Lettere e documenti di Celeste Menotti furono donate nel 1909 alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna dalle figlie Amelia e Celina, sorelle di Ida, le quali  raccomandarono al Direttore della Biblioteca, Prof. Albano  Sorbelli, l’importanza di un doppio grande foglio, senza traccia di scrittura, solo ingiallito un poco per il volgere degli anni.

Sono pagine scritte con inchiostro simpatico.

Il Prof. Sorbelli invano cercò di leggere quel foglio; gli venne in aiuto l’Ing. Guido Ruffini, che, essendosi dedicato allo studio dei moti del 31, soprattutto nei riguardi di Enrico Misley,  ben conosceva il reagente chimico per averlo già adoperato su lettere del Menotti scritte con inchiostro simpatico.

Applicato il reagente con un pennellino alle quattro carte bianche del foglio, dopo un lieve segno d’un nero rossiccio esse divennero leggibili. Nel timore che lo scritto avesse a scomparire il Prof. Sorbelli fece fotografare il prezioso documento e ne fece fare un cliché, conservato alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Esso conteneva l’originale autografo dello scritto di Ciro Menotti, citato negli atti del processo e sul quale venne fondata l’accusa di lesa maestà, contenente il Piano particolareggiato dei modi coi quali egli intendeva attuare la rivoluzione ed organizzare e costituire il nuovo Regno d’Italia con capitale Roma, sotto il vessillo tricolore: queste le premesse ideali dei moti del 1831.

 

”IDEE PER ORGANIZZARE DELLE INTELLIGENZE FRA TUTTE LE CITTA’ DELL’ITALIA PER LA SUA INDIPENDENZA, UNIONE E LIBERTA’ ”

Un estratto:

“….Lo scopo di tutti questi Comitati ( che si formeranno in ogni città d’Italia ) deve essere l’adempimento dei voti degli Italiani, i quali tutti reclamano in silenzio e fremendo l’Indipendenza, l’Unione e la Libertà di tutt’Italia”.

A questo fine tutti devono tendere e formare poscia dell’Italia una Monarchia Rappresentativa, dando la corona a quel soggetto che verrà scelto dall’Assemblea o Congresso Nazionale e  che ROMA fosse la Capitale -, quella Roma che non ebbe eguale e che non l’avrà mai nell’opinione dei presenti e dei posteri”.

“Indipendenza, Unione e Libertà siano il grido dell’Italia rigenerata , e lo stendardo dei tre colori, verde, rosso e bianco, sia composto ancora della Croce, ché così avremo il simbolo del trionfo della Libertà e della Religione. Senza il vessillo della religione si potrebbe temere di trovare una reazione.”….

 

“Queste idee , gettate là, sono quelle della universalità degli Italiani i più illuminati di Parma, Reggio, Modena, Bologna, tutta la Romagna, Roma e Firenze….”

 

Roma Capitale d’Italia era già nel pensiero di Ciro.Roma considerata a quei tempi la “capitale delle arti” dove convergevano artisti italiani e stranieri per apprendere forme e tecniche della tradizione classica).

 

 

Nel 1879, un Comitato di cittadini propose di erigere un monumento a Ciro Menotti, entrato di diritto nel martirologio risorgimentale.

Superate le difficoltà finanziarie grazie alle persone  coinvolte tra cui Giuseppe Garibaldi, Aurelio Saffi,  Nicola Fabrizi, Giovanni Arrivabene, il celebre storico tedesco Ferdinand Gregorovius, Benedetto Cairoli, Carlo Pepoli, Gaetano Moreali,  Giuseppe Menotti, Atto Vannucci, Enrico Cernuschi, Giuseppe Ricciardi, Eleonora Reggianini, il gen. Antonio Morandi (quest’ultimo a fronte di un costo totale pari a £ 39.758 offrì la vistosa somma di £ 20.000) e molti anche dall’estero, superata l’ostilità di parte dei Modenesi legittimisti, grazie all’incitamento dello sdegnato Giuseppe  Garibaldi,  fu eretta in Modena in Piazzale Reale, oggi Piazza Roma,  di fronte all’ingresso di  Palazzo Ducale una statua,  opera dello scultore Cesare  Sighinolfi.

Il monumento raffigura  Ciro Menotti  con forti significati simbolici ed espressivi a testimonianza della passione eroica che infiammò i protagonisti dei moti del Risorgimento: il tricolore stretto al cuore, la mano chiusa, lo sguardo sprezzante … per un giuramento tradito..

La scultura poggia su un basamento che in ognuno dei quattro lati porta un medaglione in rilievo con l’effigie di un  martire modenese:

 

– 1821- don Giuseppe Andreoli: arrestato con l’accusa di istigare i suoi allievi alla Carboneria, fu giustiziato tramite decapitazione. La sua vicenda si intrecciò con l’uccisione del direttore di polizia Giulio Besini.

 

– 1831-Vincenzo Borelli: colpevole del delitto di lesa Maestà per aver sottoscritto con altri  settantuno cittadini modenesi  decaduta l’autorità  del Duca, fu condannato a morte per impiccagione.

 

– 1832- Giuseppe Ricci: guardia d’onore di Francesco IV, sposato con la contessa Teresa Menafoglio, diffamato dal conte Girolamo Riccini, fu accusato di tradimento e condannato alla morte infame sulla forca, tramutata in fucilazione, per clemenza ducale. Dopo la morte il Ricci fu riabilitato e il cospicuo patrimonio confiscato fu restituito alla famiglia.

 

– 1844- Anacarsi Nardi: partecipò all’insurrezione di Cosenza, preparata dalla “Giovane Italia” e guidata dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera; catturato dopo il fallimento del moto, fu condannato a morte e fucilato nel vallone di Rovito, il 25 luglio 1844.

Il 6 giugno 1880, Festa dello Statuto , il gen. Massimiliano Menotti, figlio di Ciro, allora aiutante di campo del Re Umberto I°, fu invitato dal prof. Silingardi all’inaugurazione del monumento. Massimiliano, dovendo scegliere fra due manifestazioni che si svolgevano contemporaneamente a Modena e a Roma preferì, convinto di onorare nel Sovrano d’Italia tutta la Storia del Risorgimento e quindi la stessa memoria del padre, rimanere a Roma. Così scrisse al prof. Silingardi, declinando l’invito : “ Il giorno 6 è festa nazionale, com’Ella sa, e tutti della Casa militare sono in servizio presso S. M. il Re. Non saprei dunque meglio onorare la memoria di mio padre di quello che trovarmi al seguito di S. M. il Re d’Italia in Roma, in divisa di generale dell’Esercito Italiano: grado conseguito nelle file dello stesso con 31 anni di non interrotti servizi in tutti i memorabili avvenimenti che ne fecero il più potente strumento del grande edificio nazionale. Questo per giustificare il non poter esser io il 6 all’inaugurazione  della quale Ella , con troppa lusinghiera espressione, dice che sarei il più bell’onoramento , mentre a mio avviso il più bello ne deve essere quella carità di patria che ha spinto i pochi a farsi interpreti d’una prova di riconoscenza patria a quelli che generosamente – per servirmi d’una frase di un mio buon fratello ora estinto- ebbero il solo torto di aver troppo presto ragione”.

Il Lions Club Modena Host  nel 2008 ha promosso e curato un restauro conservativo dei bianchi marmi di Carrara della statua  di Ciro Menotti e nel 2014, gli Allievi Ufficiali dell’Accademia Militare di Modena del 194° Corso, autofinanziandosi, hanno consentito il ripristino delle scritte  incise sul Monumento.

 

Nel 1896  il Municipio, a gloriosa ricordanza del patriottico ardire, pose in Corso Canalgrande 90  sulla casa di Ciro Menotti una lapide con i  nomi dei 43 compagni di fede e di coraggio del Martire:

Gaetano Benatti, Giuseppe Bertelli, Giacomo Bignardi, Federico Bonetti, Carlo Brevini, Giuseppe Brevini, Costante Buffagni, Francesco Casali, Giuseppe Castelli, Silvestro Castiglioni, Michele Carani,  Pietro Cavani, Federico Della Casa, Carlo Fabrizi, Sigismondo Giberti, Luigi Fabrizi,  Gaetano Fanti, Manfredo Fanti, Lorenzo Ferrari, Giacomo Franchini, Giuseppe Franchini, Antonio Giacomozzi, Angelo Gibertoni, Bernardo Giugni, Felice Leonelli, Luigi Loschi, Francesco Malagoli, Giuseppe Manfredini, Angelo Manni, Nicola Manzini, Domenico Martinelli, Paolo Martinelli, Ignazio Rizzi, Giovanni Battista Ruffini, Giuseppe Savigni, Andrea Sereni, Giuseppe Storchi, Angelo Usiglio, Raimondo Vandelli, Giuseppe Varroni, Felice Vecchi, Paolo Vitali, Sante Volpi.

 

 

Nel 1914, nel corso della demolizione della Cittadella fu rinvenuto il luogo del patibolo, detto dell’ergastolo, perché vicino alla prigione. Sul bastione fu trovato un basamento di mattoni che recava infisse due travi in legno, sostegni delle forche di Ciro Menotti e Vincenzo Borelli.

Nel 1931, al posto delle due travi di legno , conservate al Museo Civico di Modena, fu eretto un monumento rievocativo con l’apposizione di una lapide che testualmente recita:

QUI

LA MATTINA DEL 26 MAGGIO1831

CIRO MENOTTI

E

VINCENZO BORELLI

OFFERSERO LA VITA

ALLA LIBERTA’ E ALLA PATRIA

 

Dopo anni di completo abbandono, nel 2007, il Comune di Modena ha voluto dare dignità al monumento sito in  piazza 1° Maggio.

Fu  incaricato del restauro lo scultore Carlo Cremaschi che nella  struttura muraria del monumento, dove lateralmente riprende gli scalini del patibolo,  ha inserito un medaglione di marmo con i ritratti dei due martiri, riproduzione di  una medaglia coniata a Parigi nello stesso 1831 dallo scultore Jean Jacques Barre su iniziativa degli esuli patrioti modenesi e reggiani affiliati alla Giovine Italia.

 

Carpi, Modena, Fiorano ogni anno il 26 maggio tornano a rendere omaggio ai due Martiri del Risorgimento con la deposizione, davanti al monumento-patibolo, di una corona di fiori che viene posta dai Cadetti dell’Accademia Militare di Modena.

 

 

 

Il 26 maggio 1981, l’Amministrazione delle Poste Italiane, su domanda dei pronipoti di Ciro Menotti, ha emesso il francobollo commemorativo per il Centocinquantesimo Anniversario della morte del Martire del Risorgimento Italiano.

 

Le cerimonie commemorative, le rievocazioni, i convegni di storia patria, le celebrazioni e gli scritti devono in primis contribuire a far conoscere e divulgare, specialmente tra i giovani, il nome, gli ideali e l’azione di Ciro Menotti, pioniere dell’indipendenza italiana, fautore dell’unione di tutti gli Italiani, simbolo della lotta per la libertà, entrato nel “Pantheon dei Martiri” che hanno fatto l’Italia.

 

 

      Anna Maria Menotti

(già  segretaria generale dell’Istituto del Nastro Azzurro)

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