Roberto Olevano. La Seconda Campagna d’Italia

Ricerca riguardante lo sviluppo degli avvenimenti dopo la battaglia di Marengo

INTRODUZIONE. IL CONTESTO STORICO
Molto si è scritto su Napoleone e molto ancora si scriverà. Si calcola che i libri su di lui, in diverse
lingue, siano più di 70.000, tanti quanti sono i giorni trascorsi dalla sua morte ad oggi e, strano a
dirsi, la prima biografia fu pubblicata in Cina nel 1828. Su internet è il personaggio storico più
citato dopo Gesù.
Naturalmente anche in Italia la letteratura è vastissima e alle sue biografie vanno aggiunte le opere
sulle sue campagne, sulle battaglie, le tattiche, sui profili dei suoi familiari e dei suoi marescialli,
sulla vita quotidiana di un’epoca che da lui prese il nome e che va dagli ultimi cinque anni del
XVIII secolo ai primi quindici del XIX. Tuttavia, le narrazioni concernenti le campagne militari o le
battaglie riguardano soprattutto l’invasione della Russia – il che non sorprende considerata la forte
partecipazione italiana nelle armate napoleoniche – e le battaglie di Austerlitz e Waterloo. Se da un
punto di vista squisitamente militare l’interesse per queste due battaglie è giustificato, essendo la
prima il capolavoro assoluto di Napoleone e la seconda quella che pose fine al suo mito, appare,
secondo un’ottica più vicina a noi, assolutamente immotivata la scarsa letteratura per gli
avvenimenti accaduti in Italia che meriterebbero maggior attenzione. Eppure è stato in Italia che
Napoleone ha dato inizio alla sua folgorante ascesa, ed è di nuovo in Italia che il suo astro ha
conosciuto il massimo fulgore.
La seconda campagna d’Italia, di cui la battaglia di Marengo è al tempo stesso il momento più alto
sia dal punto di vista militare che politico, è stata l’operazione bellica che indubbiamente ha posto
Napoleone Bonaparte al centro della Storia. È l’istante in cui, per dirla alla Manzoni, “ei si nomò
due secoli”, ponendosi ad arbitro tra la Rivoluzione e la Restaurazione. Se il vecchio mondo non si
rassegnava a morire, ed aveva ancora forze sufficienti per combattere e sopravvivere, il nuovo
mondo non poteva più essere distrutto, ma non aveva ancora la forza per ottenere il trionfo. Una
nuova realtà, in Europa, era in elaborazione e provava a creare una società corrispondente alle
esigenze emergenti, trovandola tuttavia impreparata e ostile perché ingessata in un immobilismo
secolare. La rivoluzione francese aveva inflitto al vecchio mondo una scossa capace di
sconvolgerne le fondamenta, gettando le basi di una nuova società. Tuttavia si era trasformata in un
mondo caotico e convulso, un vulcano in attività, nel quale il nuovo non aveva preso la forma della
legge e del diritto tale da consentirgli di esistere ed imporsi sulla civiltà europea. Intanto il vecchio
mondo, ancora in agguato, aspettava il momento per riaffermarsi, riguadagnare il terreno perduto e
cancellare gli ultimi dieci anni di storia. Così si possono riassumere le vicende europee sul finire del
XVIII secolo, in cui l’Italia, per un lungo periodo, fu, usando il gergo sportivo, il terreno di gioco.
Tra le due campagne ci sono evidenti differenze. Mentre nel 1797 Napoleone era solo un outsider,
nel 1800 i nemici avevano ormai imparato a conoscerlo e se ancora non lo temevano, sicuramente
lo tenevano nella giusta considerazione. Anche il territorio e il contesto storico erano
profondamente diversi. Durante la prima campagna, la rivoluzione aveva varcato le Alpi
affacciandosi in Italia. Le menti progressiste accolsero i francesi come liberatori, ma la speranza
riposta nel “nuovo” s’infranse ben presto nelle spoliazioni cui i territori italiani furono sottoposti.
Qualcuno arrivò a rimpiangere il vecchio mondo e non solo tra la popolazione civile vessata, perché
a rammaricarsi del nuovo, furono soprattutto, nel mondo militare, gli alti ufficiali più anziani.
Che cosa era cambiato nel metodo di condurre un evento bellico? Fino alla Rivoluzione, la guerra,
rimpianta dai vecchi generali, era gestita e vissuta secondo un canone tradizionale, scandito da una
serie di rituali fissi. Era la buona, tradizionale guerra di un tempo depurata dalla cieca violenza, con
4
eserciti che obbedivano a una sorta di cerimoniale tacitamente e universalmente rispettato. Le
guerre del Settecento non furono distruttive, perché l’obiettivo di ogni Stato era di conquistare un
determinato territorio senza rovinarlo e senza danneggiare eccessivamente il proprio costoso
esercito. Non si puntava all’annientamento totale dell’avversario, ma chi era in svantaggio si
arrendeva. Non c’era particolare odio verso il nemico e non c’erano obiettivi diversi dalla conquista
territoriale. Un esito per nulla casuale ma conseguente al fatto che la Guerra dei Trent’anni,
combattuta per motivi religiosi nel secolo precedente, aveva avuto un carico di violenza e
devastazioni tali da ridurre alla metà la popolazione europea. La decimazione era avvenuta, peraltro,
non solo per le morti in battaglia o per causa di guerra, ma anche per la carestia e la pestilenza che
ne seguirono, quasi che i quattro cavalieri dell’apocalisse si fossero scatenati. Alla luce di questi
eventi, si cercò di limitare l’impatto delle operazioni militari sulle popolazioni civili, di migliorare
le condizioni di vita e, soprattutto, sanitarie dei soldati e di applicare un trattamento più umano ai
prigionieri: la guerra picaresca del “secolo di ferro” lasciava il posto alla “guerra in merletti”.
Privata dei suoi contenuti religiosi, essa entrava nell’alveo della politica diventandone il
proseguimento con altri mezzi, come avrebbe detto più tardi Von Clausewitz.1 Aveva dei fini ben
precisi come quello di dirimere le controversie tra gli Stati o far conseguire ad uno o all’altro dei
vantaggi economici o territoriali concreti. Venne in qualche misura addomesticata, formalizzata,
quasi fosse possibile trasferire anche sui campi di battaglia quel processo di civilizzazione che ha
nel Settecento una tappa decisiva.
Anche questo tipo di lotta armata che venne spregiativamente chiamata “dei merletti”, nonostante si
cercasse di limitare il carico di violenza, ebbe comunque episodi di grande combattività, come le
sanguinosissime battaglie di Malplaquet, Blenheim e Poltava. Quantunque i soldati indossassero
parrucche che usavano incipriare, ciò non conferiva loro un’immagine stereotipata, quasi da
operetta, trattandosi pur sempre di professionisti avvezzi al mestiere delle armi e sicuramente molto
più degli eserciti nazionali delle epoche successive. Reclutati fra gli strati più bassi della
popolazione e sottoposti a una disciplina di ferro, essi erano chiamati a un mestiere pericoloso, ma
avevano in cambio una discreta paga, erano ben vestiti, nutriti, alloggiati e veniva loro garantita
un’assistenza sanitaria che, per quanto oggi appaia primitiva, era senza alcun dubbio assai migliore
di quella, pressoché inesistente, riservata ai civili. Terminato il mestiere delle armi, i veterani
potevano infine trascorrere una vecchiaia sicura e tranquilla in strutture che avevano nell’Hotel des
Invalides a Parigi, uno dei migliori esempi. Il Settecento dunque fu l’epoca in cui, nonostante si
combatté quasi ininterrottamente per tutto il secolo, la popolazione civile non fu quasi mai coinvolta
da tali guerre circoscritte. Come disse lo storico Guglielmo Ferrero: “Questa fu una delle cose
preziose che abbiamo perso con la Rivoluzione. La Rivoluzione Francese l’ha distrutta insieme al
cerimoniale, ai costumi e alle mode dell’Ancien Régime”
2
. Da non sottovalutare poi che i militari,
erano gli unici a poter disporre delle armi, in quanto la popolazione civile era scrupolosamente
tenuta fuori dalle forze armate e questo proteggeva le aristocrazie da eventuali insurrezioni. Quegli
eserciti erano anche strumenti per il mantenimento dell’ordine pubblico, ecco perché i sovrani non
potevano rischiare di farli distruggere in una battaglia decisiva, ne sarebbe risultato indebolito anche
il potere interno.

1
Kark von Clausewitz – Della guerra – Arnoldo Mondadori Editore; Segrate (MI)
2
Nuovi studi su Guglielmo Ferrero, Atti del convegno Rivoluzione, bonapartismo e restaurazione in G. Ferrero, Forlì 21–22
novembre 1997, e delle Giornate di studi del gruppo di ricerca CNR su Storia, società e politica in G. Ferrero, 27–28 gennaio 1998,
a cura di Lorella Cedroni, Roma, Aracne Editrice, 1998
5