Giovanni Cecini. Cinematografia Italiana di guerra

IL CINEMA DELLA SABBIA

Che senso ha raccontare ancora la guerra italiana nel deserto?

Giovanni Cecini

Fucili e celluloide

Il cinema italiano ha raccontato la Seconda guerra mondiale in momenti e stili diverti, in genere contrassegnati dal clima sociopolitico esistente. Si è iniziato nel periodo coevo al conflitto, nel quale la logica delle produzioni aveva di massima una sua funzione propagandistica o di regime, non esente tuttavia da una vocazione artistica. Nel contesto della campagna dell’Africa settentrionale sono due i film, da poter citare: Giarabub (1942) di Goffredo Alessandrini e Bengasi (1942) di Augusto Genina.

Passato il fascismo, la guerra venne intesa in senso drammatico, come momento ormai alle spalle, sui cui però riflettere in vista di una rinascita sociale. Per tale motivo, soprattutto gli anni Cinquanta e Sessanta ebbero a testimoniare un grande sviluppo del cinema bellico in una nuova chiave patriottica, volta anche e soprattutto a ridare credito alle Forze armate italiane, sminuite da una guerra sbagliata. La più nota di queste pellicole è senza dubbio Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini; tuttavia l’elenco potrebbe essere lunghissimo. Fu così che – rimanendo in ambito nordafricano – nel giro di quindici anni ebbero a uscire tre film, volti a rappresentare con toni a tratti celebrativi e a tratti romantici la battaglia di El Alamein: Divisione Folgore (1954) di Duilio Coletti, El Alamein (1957) di Guido Malatesta e La battaglia di El Alamein (1969) di Giorgio Ferroni. Le tre pellicole ebbero il proponimento di celebrare le gesta dei paracadutisti della divisione Folgore e raccontare una battaglia persa, ma combattuta con estremo valore e tenacia. Nel pieno di un periodo d’oro della cinematografia nazionale non mancarono poi ammiccamenti amorosi o influssi melodrammatici.

Nel frattempo, a fronte di una produzione industriale anglosassone molto sensibile al kolossal bellico, anche in Italia a partire dalla metà degli anni Sessanta iniziò a realizzarsi tutta una serie di produzioni, che avevano le ambizioni del grande cinema hollywoodiano, ma spesso diluito (soprattutto per ragioni economiche) con i tratti della commedia all’italiana o dei coevi spaghetti-western. In questo caso i risultati furono di massima ad uso e consumo dell’incasso commerciale, senza particolari velleità artistiche o di riflessione sociopolitica.

Finiti gli anni Settanta, anche a fronte di uno spostamento del cinema americano verso altre realtà (per esempio la guerra del Vietnam), in Italia la cinematografia bellica si ebbe a smorzare, con pochissime eccezioni. Tra queste ultime, vanno citati lo scanzonato Ciao Nemico (1981) di Enzo Barboni, il caricaturale Scemo di guerra (1985) di Dino Risi e il poetico Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores. La prima pellicola – realizzata da uno dei registi creatori della coppia Bud Spencer-Terence Hill – risentì molto del tono gigionesco delle commedie anni Settanta; pertanto il conflitto è raccontato al pari di un derby di calcio. La commedia di Risi (tratta da Il deserto della Libia di Mario Tobino, su cui torneremo) appare meno strutturata e in fondo si risolse in un’occasione grottesca mal riuscita: il gruppo di ottimi sceneggiatori ingaggiati (tra cui Age e Scarpelli) non riuscì a dare un certo ritmo a una narrazione, troppo incentrata sui due cabarettisti Beppe Grillo e Coluche, che resero la follia della guerra al pari di una mera farsa. Mediterraneo ebbe miglior successo: ambientato in modo atemporale tra il 1941 e il 1943, la guerra appare sempre in sottofondo, anche se in realtà non si vede praticamente mai. Avremo comunque modo di tornare sull’argomento, visto che lo sceneggiatore della pellicola fu Enzo Monteleone.

A parte quelli citati, il contesto bellico continuò di massima a latitare nel cinema italiano, salvo qualche produzione, che può anche aver toccato il primo lustro degli anni Quaranta, ma senza il proposito di parlare della guerra vera. Fu così che, nonostante il rifiorire nella seconda metà degli anni Novanta del filone bellico – grazie principalmente a Steven Spielberg – a Cinecittà ancora si continuò a non avere la volontà o i finanziamenti necessari per continuare a parlare di Seconda guerra mondiale. Questo almeno fino al 2002[1].

 

Mancò la fortuna, non la sceneggiatura

Come accennato nel paragrafo precedente, le celebrazioni del biennio 1994-95 per il 50° della fine della Seconda guerra mondiale portarono oltreoceano un certo dinamismo cinematografico in fatto di cinema bellico. Uscirono così nel volgere di pochi mesi due importanti pellicole: La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick e Salvate in soldato Ryan (1998) di Spielberg.

Proprio questi film indussero il già citato Monteleone[2], che era passato nel frattempo dalla scrittura alla direzione di film, a interrogarsi sulla possibilità di parlare ancora di guerra nel cinema italiano. La sua curiosità lo aveva portato del resto a leggere con attenzione non solo una gran mole di memorialistica inerente alle campagne d’Africa e di Russia (Paolo Caccia Dominioni e Mario Rigoni Stern in testa)[3], ma anche a interrogarsi a proposito del dibattito, che a metà degli anni Novanta ancora si arrovellava sull’uso o meno dei gas in Libia e in Etiopia[4]. Fu a quel punto che egli colse l’occasione dell’imminente 60° anniversario della battaglia di El Alamein, per pensare a una nuova opera, che fosse più seria e più matura, rispetto all’agrodolce Mediterraneo. Il desiderio di concentrarsi nel contesto nordafricano aveva anche una valenza di ordine pratico: non avendo i fondi per poter girare un film sulla Russia – come per esempio aveva fatto Jean-Jacques Arnaud con Il nemico alle porte (2000) – ritenne il deserto il luogo ideale, che potesse conciliare una libertà artistica con la possibilità di ridurre il budget. Il deserto era già là, non andava ricostruito, oltre al fatto che dai tempi di Marrakech Express (1989) lo sceneggiatore Monteleone conosceva molto bene l’Africa. Fu così che egli iniziò a sviluppare questa idea, convinto di poter proporre una versione personale de Il sergente nella neve di Rigoni Stern, ma nella sua versione «nella sabbia» per cattivarsi i magri bilanci delle produzioni italiane. In questo modo per nulla interessato a ritornare sul vecchio canovaccio relativo alla divisione Folgore, egli si concentrò su un’analisi più intima e autentica della guerra. Egli aveva già scritto una guerra corale dal basso per Mediterraneo in un contesto di azzurro paradiso; ora intendeva ricreare invece l’inferno ocra della sabbia. L’obiettivo sarebbe stato poi anche far uscire dal torpore la stessa battaglia del 1942, che secondo una diffusa vulgata si incentrava sul mero scontro tra Montgomery e Rommel.

Così avrebbe in seguito raccontato lo stesso Monteleone: «Dopo aver scritto la prima versione della sceneggiatura di El Alamein basandomi su decine di libri e diari, ho sentito il bisogno di farmi raccontare dalla viva voce di chi era stato veramente in prima linea quello che avevano vissuto»[5]. Per fare ciò egli quindi andò a ricercare per l’Italia alcuni reduci. Le interviste realizzate divennero presto un documentario, presentato al Festival di Venezia dal titolo I ragazzi di El Alamein (2002). A posteriori in molti avrebbero considerato esso una mera costola del film principale, tuttavia come ebbe a commentare Lucio Ceva: «Non si tratta […] di materiali accatastati in una specie di deposito-serbatoio. […] Questo infatti è un altro film [rispetto a El Alamein. La linea del fuoco] […]. Un’inchiesta […] controllatissima, condotta con mano sicura e che utilizza griglie intelligenti, tempi e intervalli suoi propri»[6]. Trattandosi di combattenti della parte sbagliata, l’«operazione [fu] delicata, ma il documentario è efficace proprio perché evita ogni retorica, presa di posizione politica o tentativo di assoluzione storica ed è solamente un tentativo di analizzare il lato umano di un episodio della nostra storia che si è sempre cercato di dimenticare»[7]. Interessato solo a fare cinema attraverso la memoria, Monteleone del resto non si stava curando delle possibili polemiche, dovute anche al grande dibattito storicopolitico inerente a fascismo, alla guerra e alla Resistenza, che tanto stava infuocando la cosiddetta Seconda Repubblica. Con massima onestà intellettuale egli non aveva l’obiettivo di accusare o assolvere nessuno. Il proposito del documentario (e quindi del realizzando film) era invece quello di ricostruire una storia di gente comune, sempre impossibilitata a dire la propria versione di quei drammatici fatti[8].

In buona sostanza il documentario s’inserì essenzialmente con due elementi preziosi: innanzitutto offrì spunti autentici, per rendersi conto della veridicità di molti particolari del successivo film; in seconda analisi rese anche l’idea di come nessuno dei reduci intervistati avesse parlato di sconfitta. Nella loro costruzione ideale tutti ebbero infatti a metabolizzare il fatto che la battaglia fosse andata male per cause esogene, di cui essi non erano responsabili.

Come detto, il film principale deve molto a I ragazzi di El Alamein; tuttavia non solo da quest’ultimo è tratto il valore aggiunto della trasposizione cinematografica. Come detto, lo sceneggiatore-regista decise non tanto d’incentrare il racconto sull’ormai tante volte esaltata divisione paracadutisti Folgore, ma piuttosto di spostarlo verso la più reietta delle grandi unità del Regio esercito schierata in Egitto: la divisione di fanteria Pavia. In questo caso le motivazioni sono diverse e il regista non ebbe difficoltà a spiegarle, non fosse altro per rintuzzare le successive accuse, rivoltegli proprio dai tifosi della Folgore, offesi dallo sgarbo di vedere ai margini di un racconto su El Alamein i paracadutisti italiani. La Pavia era in Africa settentrionale da oltre due anni, senza possibilità alcuna di grandi onori, né di migliorie spirituali o materiali: erano tutti coscritti e, a differenza dei volontari della Folgore (in Egitto da pochi mesi e gratificati dal soprassoldo), essi non avevano speranze di un avvicendamento, nonostante molti di loro ne avessero maturato il diritto. Parlando della Pavia, Monteleone avrebbe ottenuto due obiettivi: «Salvare la pelle per problemi di budget […e] raccontare la pattuglia degli uomini perduti, abbandonati a loro stessi, non la grande battaglia dei carri armati […] non avrei potuto farlo, neanche con 100 milioni di dollari»[9].

Fu così che grazie al grande sforzo del costumista Andrea Viotti (esperto di uniformi e storico militare per lo Stato maggiore dell’esercito)[10], Monteleone preparò il nuovo film. Come egli stesso racconterà, i principali problemi furono non solo organizzativi, ma soprattutto quelli legati alla certezza, che il film fosse alfine finanziato e quindi girato[11]. Si tornerà più avanti su questo stesso argomento, evidenziando sin d’ora la reiterata ritrosia della Medusa Film ad accettare attori semisconosciuti al grande pubblico; per questo (nella terza parte del film) vennero inseriti come camei attori del calibro di Silvio Orlando, Giuseppe Cederna e Roberto Citran; ciò conferma la ritrosia delle produzioni cinematografiche ad affrontare temi bellici, oltre all’aspetto commerciale sempre preminente. Nonostante ciò, il film alfine venne realizzato e solo perché il produttore Riccardo Tozzi (patron di Cattleya) aveva avuto il padre combattente ad El Alamein, circostanza che rese quindi estremamente accidentale il buon esito della realizzazione dello stesso[12]. A quel punto – girato nella primavera del 2002 – il film uscì nelle sale nell’ottobre successivo, appena in tempo per collocarsi in simultanea con il 60° anniversario della battaglia, ampiamente celebrato dal presidente della Repubblica Ciampi.

Arrivato alfine sul grande schermo, El Alamein. La linea del fuoco si mostrò subito come un film sofferto, sia per la propria storia produttiva, sia per l’impianto narrativo, sia per alcune polemiche, che lo misero su un improvvisato banco d’accusa. Difatti, proprio l’attenzione della politica non poteva che essere anche un’arma a doppio taglio. Se al Quirinale vi era un esponente del patriottismo liberale, a Palazzo Chigi era da oltre un anno un governo di centrodestra, che aveva tutto l’interesse a enfatizzare in chiave nazionalistica le glorie militari di quella battaglia, nonostante fosse stata persa, anche perché tappa di un’iniqua guerra d’aggressione. Il film di Monteleone, per nulla intenzionato a entrare in questa disputa politica, si collocò tuttavia «ai margini della battaglia» mediatica come aveva detto oltre dieci anni prima un altro personaggio dello stesso sceneggiatore[13].

Rimandando alla prosecuzione dell’analisi il fuoco incrociato di possibili critiche alla pellicola, è opportuno piuttosto fare un’analisi narrativa della narrazione, che si divide essenzialmente in tre momenti: l’attesa, lo scontro, la ritirata. Il film torna sulla coralità, dove il personaggio affidato a Favino è essenzialmente ritagliato su Rigoni Stern; tuttavia lo fa in modo molto diverso rispetto a Mediterraneo: se in quest’ultimo l’isola creava un microcosmo in cui si era sufficienti a se stessi, il deserto invece era il peggior luogo dove poter vivere la guerra. Nel descrivere la lotta dell’uomo contro la natura, Monteleone ha cercato di mostrare lo spaesamento come ne La sottile linea rossa. Proprio nell’analisi di questo rapporto – purtroppo – vennero ad essere sacrificate (per ragioni di durata) due scene presenti nella sceneggiatura: la prima vedeva la raccogliticcia pattuglia italiana, morsa dalle mille tribolazioni del deserto, riuscire a trovare conforto nella tenda di un beduino italofono. I miliari erano alfine curiosi di conoscere meglio l’uomo incontrato: «Tu da che parte stai?» Per pronta risposta egli replicava: «Io non sto da nessuna parte, perché il deserto è talmente forte, che c’era prima di voi e ci sarà dopo di voi»[14]. La seconda scena rappresentava invece un gruppo di contadini veneti, coloni in Libia, che non volevano abbandonare la “propria” terra, nonostante il sopraggiungere dell’inferno, che si stava riversando anche su di loro. Le due scene, le uniche che rappresentavano personaggi non militari dell’intero film, avrebbero in qualche modo incrementato il grande disagio patito da soldati, mandati in Africa come bellicosi conquistatori, ma prima di tutto in lotta per la quotidiana sopravvivenza. Colpiti dalle più tormentose piaghe del deserto (fame, sete, dissenteria, insetti, tempeste di sabbia) e solo dopo dal fuoco nemico, lo sfogo del volontario Serra è iconica: «Possiamo solo sperare che succeda qualcosa, qualsiasi cosa che ponga termine all’umiliazione di questa fine senza fine».

Nel crescendo narrativo, come detto, le citazioni si susseguono, seppur involontarie ammette lo sceneggiatore-regista[15]. Interessante registrare come vi sia un richiamo all’allora più recente cinematografia prodotta dalla coppia Spielberg/Hank; infatti, oltre all’esplicito clima del film di Malick, curioso come I ragazzi di El Alamein prenda a prestito la valenza espressiva dei racconti d’introduzione delle puntate della miniserie Band of Brothers (2001), mentre il finale di El Alamein. La linea del fuoco si chiude allo stesso modo di Salvate il soldato Ryan, con l’unico sopravvissuto immerso nel silenzioso cimitero, dove trovano riposo coloro che lo hanno aiutato a salvarsi. Interessante poi evidenziare che l’ultima scena del film di Monteleone in realtà era più lunga: si scopriva che Serra non era riuscito a mantenere la promessa di tornare, perché caduto prigionieri e quindi solo da anziano aveva avuto il coraggio di poter tornare in quel luogo così drammatico. In questo senso si andava a spiegare anche l’autentico senso di conflitto interno di quella generazione di scampati alla tragedia della Seconda guerra mondiale, che non sempre accettavano di poter o voler visitare i luoghi della propria sofferta gioventù. Le solite ragioni commerciali (rendere il film più corto delle due ore) hanno imposto il taglio anche di questa scena, cosa che per certi aspetti ha di molto diluito questo importante aspetto. Ad ogni modo, proprio questo disagio sarebbe in qualche modo il filo rosso, che lega più di tutti i due film di Monteleone.

Come detto, seppur accolto dal pubblico e dalla critica con grande elogio – i reduci che lo hanno visto ci si sono immedesimati e si sono commossi[16] – in alcuni ambienti si sono sollevate anche aspre critiche, che è giunto il momento di analizzare. Se i puristi della storia militare hanno criticato il film per inesattezze e sviste[17] – di cui però lo sceneggiatore-regista poco si è curato, reclamando la licenza artistica del cinema[18] – le obiezioni più ingiustificate possono essere quelle di natura sociopolitica. Premesso che il film si colloca, come nelle intenzioni, al di là della retorica e di una qualsiasi valenza di parte, sono comunque fioccate un crescendo di accuse di «mortificazione» e «mistificazione» della storia patria, persino dalla figlia di Caccia Dominioni[19].

Fuori contesto appaiono anche le critiche di Liliana Ellena, contenute nella rivista «Zapruder», quando si accusa la pellicola di una certa abulia storica: «Difficoltà a decolonizzare i modelli di rappresentazione del nostro passato. […] Il limite maggiore del film di Monteleone, in altre parole, rimane la reticenza a raccontare che cosa ci facevano gli italiani in Africa, lasciando credere che si trattasse di uno dei tanti fronti della seconda guerra mondiale»[20]. Forse scottati dal fatto che le pellicole d’accusa come Il leone del deserto (1981) di Mustafa Akkad o Fascist Legacy (1989) di Ken Kirby siano di fatto bandite in Italia, ci si dimentica al contempo che il cinema può essere anche disimpegno e non debba necessariamente andare a ergersi a giudice della storia. Non ci si accorge invece che la guerra – seppur fascista nella sua sovrastruttura[21] – possa essere stata anche un fatto meramente tecnico; senza voler quindi sminuire gli innumerevoli crimini politici e militari commessi dal regime in Patria, in Africa o nei Balcani, possiamo onestamente dire che l’El Alamein di Monteleone è un’altra storia. Una battaglia campale in mezzo al deserto – dove non c’erano civili o vittime – ma solo soldati, che combattevano perché là mandati a scontrarsi per l’onore di Roma, Berlino o Londra. Il fatto che il saliente fosse pure la congiuntura di due imperi (o tra la dittatura e la democrazia) appare a livello narrativo un dettaglio del tutto ininfluente, che il regista non ebbe la pretesa di voler affrontare, perché non rientrante nel compito del cinema.

Sembra quindi che – oltre a Ceva – i commenti di Claudia Mogoglione[22], di Emanuela Martini[23] e di Bruno Bongiovanni[24] inquadrino molto meglio il valore di comunanza (al di sopra delle contingenze di parte) del patriottismo italiano, ribadito nel 2002 con tanta caparbietà proprio da Ciampi. Mettendo quindi da parte i propositi di polemica storicopolitica – su cui purtroppo la Seconda Repubblica si è fondata – Monteleone ha inteso raccontare dal basso essenzialmente «il prima» e «il dopo» della battaglia, concentrandosi unicamente sul coraggio dei soldati comuni, magari analfabeti, che non hanno avuto la possibilità di ragionare sui concetti di bene e male, perché non alla propria portata etica o morale. Non a caso i temi di riflessione, al pari di un racconto di formazione, nascono dallo studente volontario Serra, che alfine si interroga criticamente sul concetto di morte eroica, e dal tenente Fiore, che chiede ai comandi superiori solo l’essenziale e quindi l’indispensabile per combattere, aggiungendo poi: «le pattuglie sono utili se tornano indietro». Proprio questo tono, affatto scontato e che bada solo all’essenziale, è forse il vero valore aggiunto di El Alamein. La linea del fuoco: la ricerca di una sorta di nuovo neorealismo della guerra ha portato all’ampio consenso e successo della pellicola.

 

Se son rose…

Rispetto al dramma intimo offerto da Monteleone, il novantunenne Monicelli non poteva che proporre un teatro delle maschere, seguendo il segno della commedia all’italiana, di cui era stato uno dei più prolifici artefici. Eppure la vita artistica del grande maestro era così remota, che trovava le origini anche grazie a un’esperienza africana: proprio in Libia nel 1936 egli fece da assistente a Genina per Lo squadrone bianco. A distanza di settant’anni da quel periodo, così Monicelli lo raccontò:

 

I due mesi in Africa sono stati un’avventura clamorosa. Allora nessuno ci andava. Dopo un viaggio di tre-quattro giorni arrivammo in nave a Tripoli, che mi fece un effetto tremendo. […] Seguendo piste sconnesse ci addentrammo nel deserto di Libia […] a settecento chilometri dalla costa. Ci stabilimmo in un accampamento in mezzo al deserto. Gli attori e quasi tutti i componenti della troupe avevano paura di stare laggiù, circondati dagli arabi che non erano affatto contenti della nostra presenza. Io avevo vent’anni ed ero entusiasta di tutto[25].

 

Vissuta quell’avventura oltremare, Monicelli fu anche mobilitato per la Seconda guerra mondiale, altro passaggio epocale utile a comprendere dal vivo cosa fosse realmente un conflitto bellico. Nonostante ciò, egli si tenne abbastanza alla larga da quella guerra, che invece era stata descritta da altri suoi colleghi quali Risi, Loy, Comencini o Salce. Così eclettico e inteso nella direzione de La grande guerra (1959) e delle avventure cavalleresche di Brancaleone (1966 e 1970), egli si trovò di fronte a uno strano paradosso[26]. Da una parte il già citato Ceva ebbe a commentare: «Ho inteso una volta Monicelli affermare che non avrebbe fatto volentieri un film sulla seconda guerra mondiale perché gli sarebbe toccato avallare errori e approssimazioni stridenti con suoi ricordi precisi»[27]. Dall’altra vi era la massima di Michael Cimino: «Ogni regista è indotto a confrontarsi, prima o poi, con la guerra della propria generazione»[28].

Fu così che, dopo la deludente prova bellico-picaresca di Cari fottutissimi amici (1994), Monicelli decise di affidarsi a un suo vecchio idolo e compaesano: Mario Tobino, autore del già citato Il deserto della Libia, che era quasi una sua fissazione. Desideroso quindi di tornare in Africa con uno spirito da attempato goliardo, Monicelli era interessato a ricreare quel clima di abbandono, ozio e inutilità: «adesso l’unica cosa che mi interessa con tutte le mie forze è la realizzazione delle Rose del deserto»[29]. Riprese quello spirito giovanile e avventuroso dei suoi vent’anni: disinteressato a lasciare ad altri la preparazione sul posto del film, decise di girovagare per tutta l’Africa nordoccidentale, sfiorando anche i confini del Mali, pur di trovare un’oasi che accontentasse le sue manie di perfezione[30].

Per la sceneggiatura – in cui oltre a Tobino trovò spazio Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco – vennero chiamati Alessandro Bencivenni e Domenico Saverni; la coppia di autori noti prevalentemente per i cinepanettoni può essere imputata a principale causa dell’incompiutezza narrativa del film. Nonostante questi limiti, l’obiettivo del regista era comunque realizzare l’opera, che anche in questo caso trovò enormi difficoltà di budget e di produzione: «Vorrei girarlo senza attori noti, fare un film anche poco commerciale»[31], commentò Monicelli, consapevole che nessuno avrebbe finanziato un progetto così rischioso. Ad aggravare la situazione ci si mise anche il suo desiderio di affrancarsi da ogni precedente prova registica: inorridito dal ridicolo risultato di Scemo di guerra, egli voleva distinguersi pure da El Alamein. La linea del fuoco. In questo modo a chi gli proponeva Favino come protagonista o Viotti come costumista, egli rispose di volere «freschezza». Rifuggiva quindi dal sentirsi dire di aver imitato chicchessia, se non se stesso; medesimo discorso valeva proprio per la scelta del set, che non poteva essere preso in considerazione come ripiego o come mera forma di risparmio. Insieme al suo storico scenografo Lorenzo Baraldi, Monicelli girò per il Marocco, l’Algeria, la Libia, come detto sfiorò il Mali e infine approdò in Tunisia: fu un enorme sforzo fisico per un novantunenne. Tuttavia egli voleva vedere di persona il deserto, le dune e scegliere di persona i luoghi più isolati, che meglio gli avrebbero reso il suo ricordo di deserto di settanta anni prima. Alla fine decise per l’entroterra tunisino: sia perché in Marocco avrebbe dovuto mettersi in fila e avrebbe ricevuto gli scarti degli americani, che pagavano meglio; sia perché non avrebbe voluto problemi con le autorità locali: «io voglio la realtà, non voglio gli effetti speciali […] gli attori devono avere paura»[32]. Proprio questo senso di «perfezione» e «freschezza» lo stava portando a disdegnare quel che era stato fatto negli ultimi vent’anni in fatto (in realtà molto poco) di cinema in costume e ricreare piuttosto un suo clima bellico personale. Nel 1959 egli era stato criticato aspramente dai cultori della memoria della Prima guerra mondiale, perché paventò una versione in trincea de I soliti ignoti; allo stesso modo ora egli voleva trasporre il suo consolidato e improbabile gruppo di bighelloni tra le due del deserto.

In questo senso arrivò la scelta dell’ormai promettente Giorgio Pasotti e dei due cavalli di razza Michele Placido e Alessandro Haber. Si capisce quindi subito che, rispetto ai propri primordiali proponimenti, Monicelli dovette molto concedere alla produzione, che già stava tirando molto per le lunghe l’inizio effettivo delle riprese. In fondo dall’epoca di Speriamo che sia femmina (1986) e de I picari (1987) era iniziato un momento di cambiamento, a cui Monicelli si era dovuto per forza di cose adattare. Morti poi in progressione Steno, Age, Gassman, Sordi… anche la commedia, come la intendeva lui, era quindi cambiata e i risultati ottenuti si erano rivelati ben al di sotto dei grandi successi degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.

 Nonostante ciò e indipendentemente dal risultato possibile, l’obiettivo era e rimaneva quello di realizzare quel film, pur di mettersi ancora in gioco[33]. Rimasero epiche le sue risposte a chi lo avvertiva sulla pericolosità di questa senile impresa africana: «Che problema c’è? […] Al massimo crepo. Cosa c’è di meglio che morire lavorando sul set?»[34]; «Sarebbe bello se sul giornale mettessero Monicelli e Baraldi vengono presi dai beduini, imprigionati e chiedono un riscatto»[35].

Proprio la ricerca quasi della bella morte era del resto un tormentone per Monicelli, soprattutto perché egli era consapevole che quello sarebbe stato il suo ultimo film: «Spero che Manoel de Oliveira se ne vada prima di me, così sarò finalmente il più grande regista morente»[36]. Proprio la morte appariva del resto una costante nella sua cinematografia, ricca di funerali e cimiteri: Totò e i re di Roma (1951), I soliti ignoti (1958), Amici miei (1975), Il borghese piccolo piccolo (1977), Amici miei. Atto II (1982); pertanto anche ne Le rose del deserto non potevano mancare un cimitero e due funerali, anche se uno dei quali ammantato dal rito del matrimonio per procura.

In questa grande fiera del sarcastico e del dramma in commedia, come si è detto la sceneggiatura lasciò molto a desiderare. C’era indubbiamente la raffinata mano di Monicelli, che smontò e rimontò il racconto di Tobino, di cui alla fine rimase solo una piccola parte[37]. Rimase piuttosto «più un’atmosfera tobiniana» in cui è forte la «condanna di una guerra portata avanti male»[38]. Da fiero antifascista, Monicelli voleva esprimere così – con leggerezza e senza un antimilitarismo militante alla Kubrick o alla Rosi – le critiche alla guerra coloniale fascista[39].

Per il resto la guerra appare lontana e ciascun protagonista della storia cerca lo svago come può: scrivere lettere, fare fotografie, cercare le donne, giocare a dama, etc. In questo si vedono in modo netto le differenze con Monteleone: se quest’ultimo aveva rifiutato l’uso macchiettistico dei dialetti e la caricatura dei personaggi, Monicelli torna a questo espediente per ironizzare anche a modo suo sulle diversità regionalistiche e sulle inevitabili incomprensioni tra italiani, a maggior ragione sbattuti oltremare per una guerra, che in pochi compresero. Questo senso di spaesamento – che Monteleone aveva ripreso da Malick – Monicelli lo trae dalla migliore tradizione della commedia all’italiana:

 

Per raccontare gli italiani in guerra e il loro brusco risveglio dai sogni ingannevoli della mitologia fascista […] sceglie tante facce diverse, ognuna col suo accento e la sua mimica particolare, con i pochi volti noti che si integrano perfettamente con anonimi professionisti, e ci restituisce il ritratto di una nazione obbligata a sopportare disorganizzazione e inettitudine (i pacchi natalizi per gli alpini di Albania arrivano in Libia), a subire l’arroganza dell’alleato nazista (l’episodio di Sanna) e la farsesca inettitudine dei propri superiori (il generale Pedersoli [Sanguineti], pagliaccesca parodia di ogni retorica bellicista). Facendo di necessità virtù, racconta un’epopea al contrario, tagliando ogni possibile fronzolo narrativo, evitando oleografie e inutili prediche, riesce a trasmettere un’idea di popolo che il cinema italiano aveva dimenticato, senza nasconderne l’ignoranza, la vanità o la creduloneria ma raccontandone anche l’allegria, la saggezza e il quotidiano eroismo[40].

 

Il senso autentico venne ricercato anche attraverso la citata sua ritrosia al mero effetto speciale, convinto che solo un’esplosione vera avrebbe impaurito sul serio gli attori e li avrebbe portati a compiere gesti o reazioni i più realistici possibili: «Non voglio la cartolina del deserto […] Noi dobbiamo trasmettere delle sensazioni fastidiose, di sofferenza, di un luogo difficile»[41]. Quando la costumista Francesca Sartori (che aveva vinto il David di Donatello per Il mestiere delle armi di Olmi) si prodigava a trovare un decoro nel corredo degli attori, Monicelli in modo sbrigativo smorzata ogni forma di innaturale perfezione: «Vanno bene così sciamannati, cialtroni. Noi eravamo così in guerra… non vedi come vanno bene?»[42].

Questo spirito goliardico è del resto ben presente nel rapporto generazionale tra attori, tipizzati nel proprio regionalismo. Nel trio dei protagonisti è comunque Placido il vero perno del film: è infatti il suo frate in verità il vero volontario di guerra, che cerca di risolvere i problemi e approccia ogni situazione con buon senso e razionalità. Placido insomma appare come il vero alter ego di Monicelli, che infatti ebbe modo di sostituire alla regia, un giorno che il maestro fu indisposto.

Molto più macchiettistico il ruolo di Haber, che conferma il suo essere lo zimbello preferito del senile Monicelli, che infatti ebbe a chiamare in ricorrenti ruoli del cornuto o dell’omosessuale: «La vittima più bastonata, il capro espiatorio, è Haber. Tra i due si è instaurato da anni un rapporto sado-maso, là dove il maso è Alessandro. Quando Monicelli lo sgrida, lui freme di un piacere misto a sgomento che ha qualcosa di morboso»[43]. Proprio all’attore bolognese spetta molto di quel bozzettismo e quell’istrionismo del pazzo di Tubino, tanto da ripetere quasi come un tormentone che gli italiani in Africa vogliono importare la «nostra cultura», «la nostra democrazia» e il «benessere». In molti si sono interrogati sul senso di queste frasi: Monicelli voleva così scimmiottare e ridicolizzare gli americani, che proprio in quegli anni con gli stessi proponimenti erano in guerra in Afghanistan e in Iraq? La risposta dell’interessato non poteva che essere meno convenzionale: il regista replicò dicendo di non conoscere l’attualità internazionale e l’unico suo pensiero era rivolto al fatto che anche il fascismo si era riproposto l’obiettivo di esportare il proprio sistema politico. Che non ci fosse riuscito, era alfine una fortuna, ma tanto era[44].

 

Conclusioni

Esaminate le due pellicole nel loro concepimento, nel lungo percorso produttivo e infine in quello conclusivo di realizzazione e di distribuzione, è arrivato il momento di un bilancio, anche e soprattutto per comprendere i punti di contatto e le differenze. Come detto, il periodo considerato (2002-2006) era un periodo in cui l’Italia aveva una sua collocazione politica nostalgica e conservatrice, che infatti si riallacciava a livello internazionale all’attivismo bellicista degli Stati Uniti. In questo clima i due film citati hanno dimostrato un certo dinamismo artistico, anche se perseguendo due strade diverse e portando ad esiti espressivi totalmente diversi. Entrambi con propositi di riflessioni sociale, l’opera doppia di Monteleone si concentra sul dramma collettivo, mentre Monicelli ripercorre ancora i tratti (anacronistici) della commedia umana delle differenze. Entrambe si riallacciano al concetto del cinema corale, anche se onestamente in El Alamein il risultato è superiore alla somma delle parti, mentre in Le rose del deserto è inferiore. Il finale nel sacrario in terra egiziana lascia un vuoto, ma allo stesso tempo una commozione sincera; il finale con l’ennesimo funerale, questa volta del cornuto Strucchi ingenera nello spettatore rabbia e delusione.

Altro elemento di grande interesse è la scelta del racconto dal basso: colonnelli e generali si vedono di rado e sempre in ruoli ridicoli e disprezzabili. In questo la guerra è raccontata con precisione, visto che in fondo la guerra italiana fu combattuta in maniera dimessa, nella sostanza senza grossi clamori, nonostante la roboante propaganda di regime. Ancora una volta il cinema italiano ha saputo ritagliarsi – anche con budget ridotti e senza la grandiosità hollywoodiana – buone prove sia autoriali, che recitative di profondo spessore umano e umanistico. Entrambi si tengono distanti dalla mera polemica politica, lasciando parlare le immagini e i disagi dei soldati[45].

Gli stili ovviamente sono diversi: Monicelli è tornato al suo classico cinema, mentre Monteleone si è avvicinato in qualche modo a Rossellini[46]. Ad ogni modo sono stati comunque entrambi esperienze importanti, come non se ne fanno più in Italia. Al netto del facile umorismo, chi si occupa di storia si rende conto quotidianamente della grande ignavia o ignoranza anche delle più elementari nozioni del nostro passato, comprese quelle più recenti. Nei contesti più disparati si sente parlare di futuro, di progresso, di crescita… dimenticando poi che nessun futuro, nessun progresso e nessuna crescita sono possibili senza la memoria e la riflessione su quello che ci portiamo dietro alle spalle. Questo è ancora più grave perché lo stesso Monteleone è stato oggetto di pesanti ostruzioni, quando per voler parlare di guerre attuali, gli furono bocciati i progetti per realizzare due film sui rapimenti terroristici e sulle relative liberazioni dei giornalisti Giuliana Sgrena e Daniele Mastrogiacomo. Ciò dovrebbe farci riflettere sul fatto che, oltre a una stampa non del tutto libera, si ha anche un cinema non libero, condizionato sempre dalla veicolazione di finanziamenti per taluni argomenti piuttosto che per altri.

 

 

[1] Anche se il conflitto molto spesso è il sottofondo per storie di amore o di dramma personale si possono citare: La guerra è finita (2002) di Lodovico Gasparini, Salvo D’Acquisto (2003) di Alberto Sironi e Al di là delle frontiere (2004) di Maurizio Zaccaro.

[2] Intervista dell’autore a Enzo Monteleone, Roma 18/7/2019.

[3] E. Monteleone, El Alamein. La linea del fuoco, a cura di Antonio Maraldi, Il Ponte Vecchio, Cesena 2002, p. 5.

[4] Intervista dell’autore a Monteleone, cit.

[5] M. Tola, Intervista a Enzo Monteleone, in «Cinecittà News», 30/8/2002.

[6] L. Ceva, El Alamein al cinematografo, in «Italia contemporanea», n. 229, a. 2002, p. 679.

[7] F.F., I ragazzi di El Alamein, 1/1/2002, www.drammaturgia.it

[8] C. Morgoglione, I sopravvissuti di El Alamein. Un documentario per riflettere, «la Repubblica», 30/8/2002.

[9] Intervista dell’autore a Monteleone, cit.

[10] Intervista dell’autore ad Andrea Viotti, Roma 15/07/2019.

[11] E. Monteleone, op. cit., p. 38.

[12] Intervista dell’autore a Monteleone, cit.

[13] Il sergente Lorusso in Mediterraneo.

[14] Intervista dell’autore a Monteleone, cit.

[15] Ivi.

[16] P. Farinotti, R. Farinotti, G. Zappoli, Il Farinotti 2019, Newton Compton, Roma 2018, p. 790.

[17] L. Ceva, op. cit., pp. 682-689.

[18] E. Monteleone, op. cit., p. 40.

[19] https://digilander.libero.it/freetime1836/cinema/cinemaelalein2.htm

[20] L. Ellena, Colonial legacy, in «Zapruder», n. 02/2003, pp. 92-93.

[21] Intervista dell’autore a Viotti, cit.

[22] C. Morgoglione, El Alamein: “Solo un film non una lezione di storia”, «la Repubblica», 4/11/2002.

[23] E. Martini, La recensione su I ragazzi di El Alamein, «FilmTv», n. 46/2002.

[24] B. Bongiovanni, Valorosi senza enfasi, in «L’indice dei libri del mese», a. XX, n. 1/2003, p. 29.

[25] M. Monicelli, La commedia umana, Il Saggiatore, Milano 2016, p. 251.

[26] Ivi, p. 146.

[27] L. Ceva, op. cit., p. 688.

[28] R. Nepoti, Guerra, Electa, Milano 2010, p. 6.

[29] M. Monicelli, La commedia umana, cit., p. 300.

[30] Intervista dell’autore a Lorenzo Baraldi, Roma 20/07/2019.

[31] M. Monicelli, La commedia umana, cit., p. 146.

[32] Intervista dell’autore a Baraldi, cit.

[33] Ivi.

[34] S. Mondadori, Dodici anni dopo, in M. Monicelli, La commedia umana, cit., p. 14; C. Rapaccini, Le mosche del deserto. Appunti dal set del film Le rose del deserto di Mario Monicelli, Maschietto, Firenze 2006, p. 53.

[35] Intervista dell’autore a Baraldi, cit.

[36] M. Ferrandino, G. Veronesi, Muoiono solo gli…, documentario Rai Tg3.

[37] Intervento di Paolo Albiero in Mario Tobino e il cinema, «Incontri al cinema Trevi», Roma 8 aprile 2016.

[38] Intervento di Giovanni Fago in Mario Tobino e il cinema, cit.

[39] Dichiarazioni di Monicelli, rilasciate a “Rai per una notte”, edizione speciale della trasmissione “Annozero”, 25/3/2010.

[40] P. Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2014, Baldini & Castoldi, Milano 2013, p. 3280.

[41] M. Monicelli, Il mestiere del cinema, cit., p. 23.

[42] C. Rapaccini, op. cit., p. 39,

[43] Ibidem, p. 72.

[44] M. Ferrandino, G. Veronesi, op. cit.

[45] P. Mereghetti, op. cit., p. 1256.

[46] T. Kezich, «Corriere della sera», 9/11/2002.